Così quel giorno finii alle Nuove

Così quel giorno finii alle Nuove MILA RICORDA 50 ANNI DOPO Così quel giorno finii alle Nuove La casa di corso Re Umberto dov'eravamo andati a abitare alla vigilia della Grande Guerra non aveva ascensore, a quei tempi un lusso, né telefono, né tanto meno citofono, ma possedeva un curioso tabellone di campanelli al pianterreno, coi quali si potevano chiamare gli alloggi del vari piani. L'ultimo giorno di maggio del 1929 il campanello suonò, poco dopo mezzogiorno, quando noi stavamo già a tavola. — Va a vedere — mi disse mia mamma. — Magari è nonna. Uscii sul pianerottolo e mi sporsi verso la tromba delle scale. Non era la nonna, era Pavese. Se ne stava in piedi al pianterreno, leggendo un libro che con una mano si teneva ad altezza del viso, e con l'altra si tirava una ciocca di capelli. — Cosa c'è? — gli gridai. — Vieni giù. Scesi i quattro piani, e subito lui m'investì con sarcasmo, senza preamboli né saluti, com'era nelle nostre abitudini. — Bella coglioneria che avete fatto con quella vostra lettera a Croce. Adesso è sul tavolo del Questore e vi arrestano tutti. Glie l'ha detto a Antonicelli, ieri sera, Ivan Benzina Tre Stelle, al ballo della contessa Tal dei Tali. Aggiustati. Ciao. E se ne andò nel corso assolato, stiracchiandosi la ciocca dei capelli. Arrestato Ivan Benzina Tre. Stelle era Ivan Bianchi Mina, il Federale di allora, un giovane introdotto nella Torino bene, probabilmente una brava persona. Del resto allora l'ufficio di Federale era ancora assai indeterminato. In un sussulto di memorie dei suoi trascorsi futuristi al fianco di Filila e di Marinetti, Sturani. incredulo che uno potesse chiamarsi veramente Ivan, l'aveva ribattezzato così, e noi usavamo il nomignolo abitualmente, senza nessuna intenzione di scherzo. Risalii le scale con le gambe che facevano giacomo giacomo. Inghiottii di mala voglia il resto del pranzo, e tosto mi levai, dicendo: — Vado da Leone. Leone era Ginzburg, e abitava lì vicino, in via Vico angolo via Massena, con la finestra del suo studio, a pianterreno, proprio di fronte al celebre casino, per noi oggetto di eterne facezie nei riguardi del castissimo amico. Leone era la testa forte del gruppo, e da lui speravo di avere consiglio nell'insolito frangente. Ma non ci arrivai. Già dal secondo piano sentii due voci maschili di chiaro accento meridionale, che chiedevano alla portinaia: — Sta qui 'o studente Mila Massimo? Non mi venne neanche in mente che avrei potuto cercare di filtrare in mezzo a loro, come un inquilino qualsiasi, e rendermi uccel di bosco. Gli andai incontro per le scale e dissi nobilmente, come un personaggio di Corneille (di cui ero a quei tempi appassionato lettore, molto preferendone la retorica eroica al morbido psicologismo di Racine, tanto pregiato da Leone e da Pavese): — Sono io colui che cercate. Forse tesi i polsi alle manette, ma le manette non c'erano. Mi dissero con cortesia: — Favorisca con noi un momento in Questura. Una cosa da niente. Il Questore ha bisogno d'una informazione. E mi condussero con l'auto in Questura, che allora era in piazza San Carlo, accanto alla chiesa di Santa Cristina. L'informazione andò per le lunghe, che il Questore non ebbi il bene di vederlo, e verso sera mi portarono in furgone alle Nuove. Dalle sconnessure del veicolo vidi i manifesti d'un nuovo film sonoro, era il secondo o il terzo che arrivava a Torino, dopo II cantante pazzo di Al [olson. e mi dispiacque di perderlo. Anche mi dispiaceva dell'amichetta che proprio da poche settimane mi ero riuscito a fare, una matricola venuta all'Università a miracol mostrare, cioè ad accettare con entusiasmo la corte dei compagni di scuola, cosa assolutamente inaudita negli austeri usi accademici di quei tempi. Sicché, vista la facilità con cui «ci stava», e l'aspetto provocante, noi l'avevamo subito soprannominata «la baccante lolle». Alle Nuove mi accolsero con indifferenza, mi presti'" le generalità e le impronte digitali, e in un cortiletto sinistro, da esecuzioni sommarie, mi fecero una fotografia, la più bella che abbia mai avuto. Poi mi sbatterono in una cella insieme con Antonicelli e con Ludovico Geymonat. AH'«aria», però, ci rivedemmo tutti. C'era Mario Debernardi, un economista, allievo prediletto di Luigi Einaudi, sereno e ironico. C'era Aldo Bertini, futuro storico dell'arte, con uno squarcio nei pantaloni che ogni giorno prendeva proporzioni più allarmanti. «Sono molto afflitto», diceva sempre, «sono molto afflitto». AI che noi replicavamo: — E che, credi che a noi ci faccia piacere di star qui dentro? — Ma lui era fidanzato con quella che fu poi la sua prima moglie, la grecista Nella Marchesini, il cui libro su Omero si legge ancora adesso con profitto, e questo contrattempo non gli ci voleva. C'era un Muggia, di Milano, studente in medicina, e c'era Paolo Treves, che quest'avventura narrò poi con lusso di particolari nel libro Quello che ci ha fatto Mussolini. Il professor, Cosmo non si vedeva mai, forse era all'infermeria. Era lui, probabilmente, che aveva redatto la lettera di solidarietà a Benedetto Croce quand'era stato svillaneggiato in Senato per il suo discorso, unico di opposizione ai patti della Conciliazione, e che noi avevamo sottoscritto per stima verso lo studioso di estetica, senza la più lontana idea di compiere un atto politico. Nella nostra cella del terzo braccio si stava benissimo. Al mattino Geymonat si prendeva cura della nostra salute comandandoci energici esercizi di ginnastica da camera. Al pomeriggio Antonicelli ci leggeva e commentava I promessi sposi con un'arte e una finezza che fondarono in me la convinzione, mai smentita, che quello sia uno dei più grandi romanzi del mondo: cosa che non era riuscita nemmeno ad Augusto Monti in liceo, forse perché non ne era ben convinto lui stesso. Allora non usava ancora la rigorosa separazione dei «politici» dalla pittoresca fauna dei detenuti comuni. Edgardo La Piante, detto il Cervo Bianco — un imbroglione che aveva spillato milioni a credule signore del Mezzogiorno spacciandosi per un gran capo indiano e fratello di Laura La Piante, un'attrice di Hollywood allora abbastanza in voga — quando sentì che c'erano degli studenti, degli intellettuali, venne a renderci visita, lamentandosi della gentarella comune con cui gli toccava convivere e dei calzini spedati ch'erano ormai tutto un rammendo. Il vecchio scopino che faceva il cimiciaio entusiasmò Antonicelli e me recitandoci, come sua, una pregevole poesia sconcia, «Una turba crudel di cimicioni», che Franco, una volta in libertà, scoprì poi appartenere alla nobile tradizione nazionale della poesia bernesca. Dopo diciassette giorni di villeggiatura ci tradussero in Prefettura, dove irrogarono a Cosmo e a Antonicelli un paio d'anni di confino, e a noi, giovincelli irresponsabili, l'ammonizione, tosto revocata. Sotto il sole di giugno piazza Castello era affollata di parenti che aspettavano il passaggio e poi l'uscita dei «liberandi». Augusto Monti ha narrato, in una pagina de / miei conti con la scuola, la conclusione di quella giornata in cui si erano tanto distinti alcuni dei suoi allievi del D'Azeglio. SCon Ginzburg Forse la sera stessa c'era un concerto degli «Amici della Musica». Ci andai, con regolare permesso del Commissario di S. Secondo, e Leone, che di concerti non ne perdeva uno, mi abbracciò davanti al Liceo Musicale (oggi Teatro Gobetti) con una commozione e un trasporto che mi parvero francamente esagerati. La baccante folle la rividi pochi giorni dopo, sotto i portici di via Po, a braccetto di Alberto Levi, il fratello di Natalia, che me l'aveva cinicamente soffiata. Era chiaro che andavano a sbaciucchiarsi selvaggiamente nell'ombra propizia del «nostro» cinemino di piazza Vittorio. Sempre sotto i portici di via Po incontrai un giorno uno dei tanti supplenti di latino e greco che avevo avuto in liceo al D'Azeglio (e ai quali si deve la mia scarsa familiarità col grecò). Mi compatì drammaticamente: — Disgraziato! che cosa hai fatto! Non potrai più fare il concorso! Ti sei rovinato la carriera! Non aveva poi tutti i torti, ma a me non me n'importava niente. I miei tre esami biennali del second'anno — italiano, francese e storia dell'arte — erano semplicemente slittati alla sessione autunnale, e nell'estate, presto revocata l'ammonizione, me ne andai a farei il precettore di Giulio Einaudi a Dogliani, dove si facevano favolose scorpacciate di gnocchi, irrorate di Dolcetto e Barolo, sotto l'occhietto arguto del SeMassimo Mila natore Accanto al titolo: Massimo Mila nel 1929 in una fotografia Scattata alle Nuove.

Luoghi citati: Dogliani, Hollywood, Milano, Torino