Pistole, Grecia e Allah sui confini di Peshàwar di Giorgio Manganelli

Pistole, Grecia e Allah sui confini di Peshàwar ESTREMO PAKISTAN: LA TERRA DEI BELLICOSI PATHAN Pistole, Grecia e Allah sui confini di Peshàwar PESHAWAR - E' città di confine — e questo è anche il significato del suo nome; Lahore è di una nobiltà fascinosa, Karachi ha una vitalità terrestre e furba; ma Peshàwar ha una intensità, un che di povero, di antico, di arcaico, un sapore guerresco e un aroma mercantile, un sentore di cosa fragile e insieme tenace, ostinata a vivere, che ne fanno una .città irripetibile, da sognare e fantasticare a lungo. E' una città che non ti guarda e non ti parla; non gioca, non ride; nelle ambagi del suo bazaar offre, a peso, i suoi argenti, il rame, le pietre dure; ed è dura e metallica come quell'argento, quelle pietre. Città di confine: quanti confini? Due confini spaziali, ed un confine temporale. Le città di confine non hanno vita ovvia e tranquilla: Peshàwar è stata occupata dai Moghul. dagli Afghani, dai Sikh. dagli inglesi; ne è venuta fuori una città aspra, piena di soldati, e di uomini la cui professione psicologica è quella dell'uomo di guerra: i Pathan. le mai domate tribù della Frontiera di Nord Ovest. La prima frontiera, ad una quarantina di chilometri, è quella dell'Afghanistan. Più esattamente, è la frontiera del passo di Khyber. uno dei luoghi sacri della storia, uno di quei luoghi, come, diciamo, le Termopili, il Palatino. Isso e Babilonia, senza i quali la storia non si poteva fare. Dire il passo di Khyber significa ricordare i mongoli, che qui attorno si accamparono e di qui passarono per andare a distruggere e fare deserto dove erano le mirabili città dell'Islam medievale, gli irrigati, fertili campi dell'Iran; su queste montagne gli inglesi hanno combattuto ininterrotte guerre e scaramucce contro Afghani. Pathan e tutte le possibili tribù della frontiera La strada che porta da Peshàwar al passo di Khyber è bella e tranquilla, e nemmeno ci si accorge di essere su una delle grandi strade del mondo: giacche questa strada collega Kabul a Peshàwar. Lahore. Delhi e Calcutta. Tortuosamente si insinua tra montagne secche, di vera, e scostante pietra: non altissime, ma singolarmente inospiti; talora si apre una breve vallata, e si scorgono i villaggi dei Pathan. I Pathan non hanno fama di essere specialmente cordiali, ma quelli del passo di Khyber debbono essere di una qualità particolare. Il villaggio, se cosi vogliamo chiamarlo, è una sorta di costruzione tra giallo e ocra pallido che disegna il perimetro di un quadrato, o di un sommario rettangolo. Nessuna finestra, nessuna porta è visibile, ma solo un adito alla grande corte interna, sulla quale dà la porta, ma non pare vi siano finestre. La superficie occupata da una di queste costruzioni è assai vasta, e in realtà, più che ad un villaggio, fa pensare ad un fortino; e certo è nobilmente scostante, una sorta di celata che protegge un collettivo volto invisibile. Mi dicono che nessuno che non sia Pathan può entrare in quei fortini. E ad una mia ulteriore domanda, ottengo una vaga risposta: «Le donne non devono esser viste da stranieri». Attorno ai villaggi senza volto vedo sassi, magra vegetazione, qualche pecora scarsamente socievole: il tutto custodisce una allusione ad uno stato di guerra perenne, anche se talora quiescente. Da quando, nel 1849. le prime truppe inglesi entrarono a Peshàwar («in trionfo» dice una guida, ma dubito che i Pathan siano inclini al trionfo), il passo di Khyber è stato l'incubo e la sfida degli occupanti: e ne hanno lasciato memoria Lungo il percorso verso il passo la nuda superficie della roccia è non di rado segnata — e in un punto letteralmente coperta — dalle insegne dei reggimenti inglesi che qui com- batterono, in questi luoghi aridi e ostili, e lasciarono i loro morti ventenni che ancora affollano, ombre disorientate, il cimitero cristiano di Peshàwar. Ad una svolta, vedo, sulla sinistra, una scritta enorme: Khyber Anniversary. 18781978. Nel 1878 tra queste montagne si combatte una memorabile battaglia tra inglesi e afghani — che in tutta questa regione sono Pathan —. e la scritta diceva, assurdamente, che quella battaglia era stata in qualche modo ereditata dagli indigeni, dai Pathan. dai Pakistani: si aveva l'impressione, infinitamente arcaica, omerica, che non già il senso, ma il puro rito della battaglia, comunque concluso, fosse stato preservato, una sorta di Roncisvalle. Dunque, in questa esigua striscia del mondo. nell'Asia centrale, uomini arroccati e segreti custodiscono un'idea della battaglia, del combattimento, come pura sfida, una prova dell'esistere. l'idea che il tenia centrale dello scontro è il modo di morire E questo è il passo: la frontiera è aperta, montanari che danno l'impressione di non aver nome e cognome vanno da una parte e dall'altra, si vendono bevande, un cartel-,, 10 avverte che in Afghanistan, a differenza che nel Pakistan, si tiene la destra. Un altro cartello avverte che siamo a 228 chilometri da Kabul. Kabul mi sembra un nome infinitamente seducente. A pochi chilometri da Peshàwar. la macchina rallenta ad un pacifico posto di blocco: due garitte ai due lati della strada, un paio di soldati, una corda attraverso la strada: senza nessuna domanda, la corda viene abbassata: faccio in tempo a scorgere un avviso: Frontiera di Nord-Ovest, zona tribale. Che vuol dire? Vuol dire una cosa abbastanza unica al mondo. Il territorio in cui siamo penetrati è Pakistan, naturalmente: ma il governo pakistano si è impegnato a non mandare, per nessun motivo, né truppe né forze di polizia nella zona delle tribù dei Pathan. I Pathan si amministrano da soli, fanno quello che vogliono, e se un colpevole di qualche reato perseguibile in Pakistan arriva da quelle parti, bene, non sarà 11 caso di fare una guerra per riprenderlo. Chi entra nella zona tribale non gode delle consuete protezioni dello Stato, e farà bene ad affidarsi alle consuetudini bizzarre ma non maliziose dei Pathan locali E sia chiaro che se si metterà nei guai, nessuno farà una guerra per tirarlo fuori. Ne viene una strana sensazione, di eccitazione, di euforica paura, di gioco stravagante. Ma non è finita. Dopo una ventina di chilometri, forse meno, si incontra un villaggio. Darra. Non assomiglia ai villaggi Pathan di Khyber. assomiglia abbastanza a quei borghi del West americano, in cui un nobile sceriffo cerca di tener testa ai ladri di cavalli. C'è una strada centrale, molte scalcinate casette di legno, che sono, tutte, botteghe prive della parete verso la strada Che cosa vendono? Oh. niente di speciale. Fucili, rivoltelle, mitra, mitragliatrici, anche rivoltelle truccate: mi dicono, anche bombe, e buona, onesta dinamite. Fanno tutto loro, con competenza di bravi fonditori, ed ogni tanto un fabbro viene fuori dalla bottega e per provare un fucile appena finito spara qualche colpo in aria. Naturalmente, ci sono anche botteghe più pacifiche: ad esempio, oppio e hashish, annunciati da cartelloni e insegne. Qui si può comprare tutto, purché sia proibito, e se non è cosa pericolosa, deve essere almeno di contrabbando, come orologi, bottoni per polsini (me ne compro un paio: pesano un etto e non si capisce da dove vengono), sciarpe. Qui approda tutto il contrabbando asiatico, e mi dicono che arriva merce anche dalla Cina e dalla Russia. Quanto all'Afghanistan, mi dicono che le frontiere, a nord di Peshàwar. sono in larga misura note solo ai geografi che pubblicano le mappe della regione, e per quelle terre senza strade, montagnose ed irte, abitate da Pathan, mussulmani, che parlano la stessa lingua, il pashtu. questa gente mai censita e temperamentosa va e viene come gli pare. Ho detto «mussulmani»; giacché così mi è stato detto, ma poiché non scorgo moschee, ne chiedo notizie. No. lì non ce ne sono; quando uno di questi uomini del fucile deve pregare, si dispone attorno un perimetro di sassi, e quello è il luogo invalicabile, in cui egli dimora con Allah. Ho parlato di una frontiera temporale. La Frontiera di Nord-Ovest si spinge verso. Nord, fino a quella singolarissima terra che è il Gandara. Quando Alessandro Magno venne a morte, durante il suo viaggio di ritorno verso la Grecia, un generale tentò la sorte, e spintosi verso il Pamir. oltre l'attuale Afghanistan, fondò un regno che ebbe vita non breve: un regno che scrisse in greco, parlò anche greco, e fu buddista. Un successore di quel generale si chiamò Menandro. fu un grande re; e al museo di Peshàwar ritrovo il suo nome in una bacheca di bene incise monete, che recano inverosimili nomi greci — Cailistene. Aminta — e segni asiatici. Questa incredibile bizzarria della storia — riportata alla luce in gran parte da archeologi italiani dell'Ismeo — ha lascia¬ to nel continente indiano segni che talora si afferrano in una immagine, l'improvvisa leggerezza di un panneggio, la tenerezza immacolata di un volto di discepolo Nel museo di Peshàwar si custodisce una tavoletta votiva, che ha qualcosa della mètope. Raffigura una figura umana in adorazione del fuoco II gesto potrebbe essere ■^oroastriano e hindù: ma il disegno, la grafia vengono da molto lontano. Un ignoto artista ha aggirato l'intensità della cerimonia, la preclusione del simbolo: ed ha scoperto, al di là dell'illusorio e dell'eterno, la grazia del corpo, della veste, il moto irrequieto del fuoco Ha scoperto un segno inebriante e tragico della bellezza, qualcosa che è inseparabile dall'effimero, che nessun rito può redimere, qualcosa che deve essere mortale per essere perfetto, per essere gioia. Giorgio Manganelli

Persone citate: Alessandro Magno, Gandara, La Terra, Roncisvalle