L'Africa rimane schiava?
L'Africa rimane schiava? L'ultimo Ngugi L'Africa rimane schiava? Ngugi wa Thiong'o: «Petali di sangue», ed. Jaca Book. pag. 348, lire 6000. Leggendo questo «romanzo politico» dell'Africa contemporanea si capisce come l'autore da anni abbia vita difficile nel suo Paese. Lo scrittore risulta tuttora detenuto in qualche carcere del Kenya, o almeno sottoposto a misure cosi limitative della sua libertà personale da non potere comunicare con l'esterno. La sua tesi è sempre la stessa, quella già espressa più o meno esplicitamente in altre opere, come Weep not child, A Grain of Wheat: la decolonizzazione non ha liberato l'uomo africano, i regimi che si sono instaurati dopo la partenza dei colonizzatori hanno caratteristiche oppressive spesso simili a quelle dei regimi coloniali; sono subentrati «altri padroni» in molti Paesi dell'Africa, frutto di un'alleanza tra una borghesia locale che si è rapidamente sviluppata e irrobustita, cavalcando la crisi della decolonizzazione, e gli ex colonizzatori ritornati subdolamente a manovrare le realtà economiche e politiche dei Paesi di recente indipendenza. Ma Ngugi non è un sociologo, né un politico. L'acuta sensibilità ai problemi sociopolitici del suo Paese è partecipazione sofferta e senza mediazioni ideologiche al processo di trasformazione di una società a metà del guado tra un passato che conserva suggestioni potenti ed un futuro che è ancora tutto da delineare. Ngugi è immerso fino al collo in questo momento drammatico, oscuro, ancor pieno di presagi apocalittici, quali antiche premonizioni, paure ataviche delle genti africane sembrano suggerire, appena stemperate, ma più spesso esaltate nell'autore, dall'innesto del messaggio biblico. Il riferimento autobiografico in Munirà, uno dei quattro principali protagonisti del romanzo, è costante ed evidente. Munirà è un insegnante (Ngugi, fin quando era in libertà, è stato direttore del dipartimento di lingue all'uni-, versità di Nairobi); il suo «terreno» è un villaggio, Ilmorog. in cui avvengono con violenza le trasformazioni che scuotono i Paesi «in via di sviluppo». Prima la grande strada, che toglie brutalmente il villaggio dal suo isolamento, ma anche dal suo intimo incanto africano; poi la fabbrica, che anhienta la miserabile ma fiera civiltà contadina, con le sue paure, i riti propiziatori, la lenta scansione dei raccolti, sempre minacciati, sempre avari, sempre una benedizione. L'arrivo di un'altra civiltà, quella del lavoro industriale, cambia tutto, fino al delitto, alla soppressione di tre dirigenti africani della fabbrica, assurti a simbolo stesso del «patto scellerato», mai apertamente descritto nel romanzo eppure denunciato, tra gli ex colonizzatori e la nuova borghesia locale prevaricatrice. E' l'apocalisse della civiltà importata, la corruzione dell'uomo africano che accetta il modello economico e sociale del colonizzatore. Nessuno sembra salvarsi, neppure i quattro «eroi». Munirà comprende queste cose, abbraccia la causa di cui un suo ex allievo, Karega, è il protagonista più sicuro; ma le fa senza mai abbandonare il timore che il futuro, comunque, contenga la distruzione di quanto egli ha più saldo in 'sé, con la più recente acquisizione nella sua stirpe del messaggio (e del condizionamento) cristiano: il passato, le tradizioni, il modo di vedere la irealtà che è tipicamente africano, che non pare reggere ad una prospettiva «di sviluppo», comunque corretta in termini di giustizia. Di qui una permanente ambiguità, che si .esprime attraverso insistite, (struggenti immagini di «paesaggio», attraverso il personaggio di Wanja, donna che è l'elemento di comunione, anche carnale, tra Munirà, Karega e il quarto protagonista. Abdalla, il bettoliere intellettualmente in subordine, una presenza però ammonitrice perché proveniente dalla guerriglia mau-mau. Non si risolve il dilemma dei quattro personaggi, travolti tutti, in misura più o meno grande dall'apocalisse di Ilmorog, luogo e momento magico in cui tutti si ritrovano dopo passaggi drammatici attraverso esperienze «cittadine»; non si risolve il tormento dell'autore, che infine sembra richiamarsi come supremo riscatto ai temi della sicurezza nella causa, quella che armò i mau-mau contro i colonizzatori. Ma anche questo è soltanto un accenno, una tentazione. Il Paese di Ngugi, l'Africa, non consente all'autore semplificazioni, scorciatoie illusorie. Gianfranco Romanello
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