Duro Pakistan di diritto divino di Giorgio Manganelli

Duro Pakistan di diritto divino VIAGGIO DENTRO IL MONDO POLITICO-RELIGIOSO DELL'ISLAM Duro Pakistan di diritto divino La stessa impiccagione di Bhutto dà prova di che cosa significhi ancora oggi la «legge di Allah» applicata per «suo ordine» - In cerca di luoghi simbolici, di allegorie, di credenti per capire uno dei Paesi in cui più intensamente e drammaticamente si vive il problema islamico dell'essere «qui» e «ora» in una terra che appartiene a Dio - Che pensa la gente a Karachi Sono le dieci e trenta, sto per partire per un viaggio, un bel viaggio; dove vado? Vado in un certo posto, ma, in fondo, non vado in nessun posto; arriverò, per modo di dire, in una città, ma in realtà non è vero che io vada in quella città, sebbene, lo spero, io debba arrivarci. Vado verso un luogo mentale, affettivo, fantastico: se mai una religione ha avuto un aeroporto, io ho, appunto, quell'obiettivo: la religione è l'Islam, questo oscuro e intenso luogo che è insieme anima e mondo; e in questo gran luogo ho scelto la repubblica islamica del Pakistan — la Repubblica di diritto divino, la disse un orientalista francese; e dentro il Pakistan islamico cercherò l'aeroporto islamico di Karachi. Dunque, un viaggio verso e dentro una religione, un rapido contatto, un incontro con una delle apparizioni più antiche e più intense dei nostri tempi; vado in cerca di luoghi simbolici, di allegorie, di persone^ di credenti: vado in un Paese in cui incontrerò l'Islam, e, nell'Islam, ha scrìt¬ to l'orientalista Maxime Rodinson, ..Dio non è morto». Sto per partire, ed il viaggio, ancora immobile, si colora di una notizia angosciosa «Hanno impiccato Bhutto». Quella morte, discussa, paventata, scongiurata per mesi, mi fa sentire già in viaggio, già arrivato: come se con quella terribile notizia, la Repubblica di diritto divino mi fosse venuta incontro, ed abbia annunciato di non essere un luogo, come già sapevo, ma un modo di essere. Assieme al taciturno im- piccato vado a Fiumicino; e lì appunto mi viene incontro un signore allegorico; è un pakistano, da mesi manca dalla patria, ma il suo pensiero è quello; e a me appunto domanda: che ne è di Bhut-, to? Gli rispondo. Non vuole credere. Ripropone la domanda: lo impiccheranno? Lugubrmente rettifico. Lo vedo in preda ad una grande e ribelle angoscia, nascosta da una sorta di prudenza; ed ecco che so già qualche cosa di quel luogo umano e sacro verso cui intendo viaggiare. «Può succedere tutto». Mormora il pakistano. Ora so che non succederà quasi nulla, e che presto molto silenzio occulterà i discorsi sull'uomo impiccato. Mi attende un lungo viaggio notturno tra due luoghi simbolici, e anche la notte è fitta di immagini terrìbili e potenti: il Dio ..clemente e misericordioso», il Giorno del Giudizio, la Resurrezione dei Corpi, la Notte lunga più di mille notti, il Dio che non è morto che senza voce dice: ..Ti sono più vicino della vena del tuo collo». Viaggio da malattia a malattia, da morte a morte;, dovunque io vada, la realtà mi precede. La notte si consuma, diventa frettolosa alba, mattino: e rivedo gli avvoltoi dell'oriente, sento l'odore aspro, macerato, tra animale e vegetale. Karachi è calma, indaffarata, viva. Apre e affolla i suoi bazar, compra e legge, senza gesti, i giornali. Il muezzin chiama alla preghiera; più tardi, a sera, alla periferìa dei poveri si accenderanno falò funebri, luoghi di lamentazione, fuochi come lacrime e gemiti. Quando troverò qualcuno disposto a parlare di Bhutto — del generale Zia ul-Haq parlano solo i giornali — nessuno discuterà il supposto delitto di cui sarebbe il mandante, il tentato omicidio di un avversario politico: anche i giornali non tanto citano il delitto, e il conseguente castigo; ma tutti parlano, commentano, la sentenza, la condanna, l'esecuzione, come se questa fosse la sequenza logica e coerente. E qui appunto ho l'impressione di toccare fi- sìcamente il problema di quel che può significare la condanna nel mondo islamico. Non leggo argomentazioni giornalisticamente emotive ed ovvie. Nessuno scrive: «Era un delinquente politico»; qualcuno ammonisce: «Ha abusato del potere», ma chiaramente è un argomento secondario. L'argomentazione formale degli uomini della forca, i «fondamentalisti» che custodiscono un 'idea dura e compatta del diritto islamico, è tutt'altra. La riassumono con impressionante chiarezza quattro dottori della legge: in un documento che verrà considerato abbastanza importante da diffonderlo su tutta la stampa. L'argomento è questo: la Corte ha dichiarato di essere depositaria della legge di Allah, né potrebbe essere diversamente, in uno Stato islamico; la Corte sentenzia non tanto «in nome» quanto «per conto» o «su delega» («on behalf»J di Allah; dunque la sentenza non appartiene alla Corte che la emette, ma ad Allah. Ne deriva che è assurdo e illecito che la Corte faccia «raccomandazioni», giacché la sentenza che ha emesso non le appartiene. Quanto al Capo dello Stato, costui governa, a sua volta «su delega», giacché il mondo non appartiene ad alcun uomo, ma tutto e solo ad Allah. Dunque il presidente non ha alcun potere decisionale autonomo, ma solo quel potere che gli viene delegato da Colui che possiede tutto ciò che è. La sentenza, tecnicamente della Corte, è dunque una sentenza che appartiene ad Allah; più esattamente, la condanna vale in quanto promana da Allah, è un suo ordine. Ora. di fronte ad un ordine di Allah, vi sono solo due possibili atteggiamenti: o l'ubbidienza o la violazione. Un provvedimento di clemenza, argomentano i dottori, sarebbe stato un rifiuto di ubbidienza ad un preciso ordine di Allah, ed anzi un atto di complicità con colui che è oggetto di una sentenza divina irreversibile. Il presidente non ha il diritto di essere clemente, sebbene il Dio cui ubbidisce si definisca «clemente e misericordioso». So che non tutti i dottori condividono questa interpretazione dura e coerente della legge, ina nella sua esigente enunciazione riconosco i lineamenti di un mondo religioso non «consolatorio«. Sono nel Pakistan. «Repubblica per diritto divino». uno dei luoghi in cui più intensamente e drammaticamente si vive il problema islamico dell'essere «qui» e «ora», in un mondo che appartiene a Dio. un Dio arduo e solenne, e che insieme annuncia al suo fedele di essergli «più vicino della vena del suo collo». Ricordo la semplice frase di Maxime Rodinson «Nell'Islam Dio non è morto». Se si vuole capire qualcosa a questo Paese, di questo mondo brulicante di intensa e violenta vita, forse si può cominciare di qui. Giorgio Manganelli Una manifestazione a Karachi, città-simbolo di un mondo nel quale «Dio non è morto»

Persone citate: Bhutto, Maxime Rodinson

Luoghi citati: Allah, Pakistan