Non fate come gli italiani di Ennio Caretto

Non fate come gli italiani NEGLI STATI UNITI COSI' GIUDICANO LA NOSTRA SITUAZIONE Non fate come gli italiani A un seminario sul «lavoro nel ventunesimo secolo» un professore californiano ha invitato gli operai Usa a non abbracciare 1'«etica irresponsabile» dei loro colleghi italiani: alti salari, bassa produttività, posto sicuro nello Sta-! to assistenziale - Altri parlano delle colpe della classe dirigente e di «crescite troppo squilibrate» - Intanto fiorisce una moda del «made in Italy»: certe nostre opere culturali e certi prodotti industriali sono sinonimo di successo dal nostro corrispondente NEW YORK — Al seminario su -Il lavoro nel ventunesimo secolo», la scorsa settimana, un grido d'allarme è stato lanciato agli operai Usa: «Attenti a non italianizzarvi». /( grido è venuto da un noto studioso di organiszazione aziendale, il professor James O'Toole dell'università della California meridionale. Gli operai Usa. ha detto più o meno O'Toole. stanno abbracciando «l'etica irresponsabile» che caratterizza i loro colleghi italiani, cioè alti salari e bassa produttività, posto sicuro e nessun rischio, previdenza sociale piena sebbene lo Stato boccheggi. Tale etica, ha aggiunto lo studioso, è propria anche degli operai inglesi, e contrasta con «l'impegno costruttivo» di quelli tedeschi e giapponesi. «E' essa che fa dell'Italia e dell'Inghilterra le grandi ammalate del mondo industrializzato» ha concluso il professor O'Toole. «Se gli operai Usa hanno in testa un futuro all'italiana, ebbene sappiano che l'Italia è un futuro che non funziona». /( professore ha parlato a un pubblico di dirigenti di azienda e leaders sindacali riunitisi per discutere le prospettive economico-sociali del prossimo futuro, e l'esempio dell'Italia gli è sembrato calzare a pennello. Quando l'abbiamo raggiunto al telefono in California, ha fatto alcune precisazioni. «Il lavoro è un diritto inalienabile» ha detto «ma comporta doveri pesanti. Non so quale sia il grado di partecipazione operaia alle imprese, ma è certo che l'Italia ha perso la sua competitività, non è più quella del miracolo economico. Per un paese come il nostro, sarebbe pericoloso seguire la sua strada». Lo studioso ha asserito che. a differenza dell'Italia, gli Usa «non hanno fatto una scelta economico-sociale precisa». «L'orientamento operaio però è quello. Al seminario, altri oratori hanno affermato che noi ci muoviamo verso l'utopia. Non sono d'accordo. Noi ci muoviamo verso la sicurezza dell'impiego a scapito della produzione. In Italia è difficile licenziare gli incapaci e i parassiti, a partire dagli uffici pubblici. Qui incomincia a verificarsi la stessa cosa, e vi sono sentenze di tribunale che sanciscono la legittimità di questo principio. Naturalmente, c'è anche una colpa della classe dirigente ». James O'Toole ha tenuto a sottolineare che non vuole generalizzare sull'Italia né sull'Inghilterra, che certi settori della nostra industria, certi commerci, certe attività culturali «restano all'avanguardia in tutto il mondo». Ma il suo discorso e le sue dichiarazioni hanno rispecchiato una sensazione abbastanza diffusa negli Usa (e anche altrove), rafforzala dall'ultima crisi di governo, e dalla vanificazione degli sforzi di un ministro rispettato come Pandolfi. O'Toole non è il primo a parlare di una «malattia Italia», malattia non letale, poiché al nostro paese si riconosce «il bernoccolo della sopravvivenza», ma debilitante. Di un malessere italiano, infatti, qui si discute ormai da Ire o quattro anni, sia pure in una sorta di evoluzione, o involuzione, storica. Dapprima ha dominato la paura di un ingresso dell'Italia nel blocco sovietico, in seguito ai successi elettorali del pei nel 76. Poi. quando le «amministrative» hanno ridimensionato gli effetti dell'abile strategia di Berlinguer, si è diffusa la psicosi delle Brigate rosse. Adesso il malessere non appare spiegabile in soli termini politici, e si accenna a una disaffezione economica, fermi restando, è ovvio, i problemi sociali di fondo. Qualcuno arriva a descrivere l'Italia come «la prima repubblica sudamericana dell'Europa»; altri, più seriamente, come una nazione «di crescite troppo squilibrate». Un vecchio amico del nostro paese. Nat Samuels. già sottosegretario di Stato, e che oggi rappresenta negli Usa una grande industria italiana, ravvisa un'ingiustizia in questo atteggiamento. «In un primo tempo, dice, i miei compatrioti si sono lasciati travolgere dal loro vecchio pregiudizio anticomunista. Più tardi li ha spaventati il rischio: c'era un periodo in cui pochi si azzardavano a investire in Italia, e ancora meno ad andarvi a lavorare. Ora. addirittura ne temono il contagio». Samuels individua un altro motivo del nostro ristagno, la polarizzazione delle passioni politiche e degli interessi di categoria, che ha impedito l'avvicendamento del potere, scatenato il corporativismo, e in genere «sortito un effetto semiparalizzante». L'e.r sottosegretario confida nella classe imprenditoriale e operaia italiana, meno in quella politica. Egli sostiene di avere numerosi esempi «della laboriosità e ingegnosità» del nostro paese. Ammette tuttavia che i primi contatti, o comunque quelli superficiali con l'Italia possono essere negativi. Adduce due casi, dell'ini- prenditore e del turista. Il primo, abituato a un'economia padronale, cresciuto nella religione dell'efficientismo, non si capacita degli ostacoli alla produzione e ai commerci, dei ritardi nei tempi di consegna: il secondo, uso al funzionamento dei servizi, resta sconvolto dagli scioperi e dalle contraddisioni. Il malessere italiano sconcerta anche il governo, sebbene esso lo neghi, per un minimo di diplomazia. Al Dipartimento di Stato e alla Casa Bianca erano convinti die la formula dell'emergenza potesse reggere in Italia qualche tempo ancora. Essi anteponevano il piano economico alle lotte di correnti nel «crogiolo» della Democrazia Cristiana, e alle esigenze del Pei. Ministri e parlamentari, alla fine dello scorso anno.f anticipavano un recupero italiano sulla base delle statistiche della bilancia dei pagamenti e della forza della lira. Molti guardavano a un periodo di stabilità, nell'ambito della Cee e dell'alleanza occidentale. Il concetto di «malattia Italia» si esplica nell'individuazione, da parte di Newweek. del nostro paese come uno dei sei più pericolosi per il capitale americano: nella critica a vicende «destabilizzanti» quali quella della Banca d'Italia, fatta da Business Week: nel rammarico per l'incapacità dei nostri governanti di rimediare a drammi tipo i bambini di Napoli. E' facile liquidare questo giudizio come frutto dell'ignoranza della complessità della realtà italiana. Se isolare una responsabilità operaia è un errore, o un tentativo di strumentalizzazione, non lo è affatto denunciare un fenomeno globale. Dopotutto gli Usa sono pieni di italiani. Per un paradosso, il nostro malessere diventa oggetto di polemica proprio nel momento in cui tutto ciò che è «made in Italy» incontra qui una fortuna enorme. Ancora pochi anni fa. gli italo-americani erano cittadini di seconda classe, e non mancava chi. per non incappare nella discriminazione, cambiava il proprio nome. Ma oggi, «italian is beatiful», italiano è sinonimo di bello. Sono di discendenza nostrana un ministro come Califano. un governatore come la signora Grasso, il più celebre dei giudici, Sirica, che fece cadere il presidente Nixon per il Watergate. registi e sportivi del calibro di Scorsese e Andretti. e via di seguito. La più ricca strada del mondo, la Quinta Avenue. è costellata di nostri negozi. I nostri vini sono i più ricercati d'America, totalizzano la metà delle importazioni. Siamo noi che dettiamo la moda nell'abbigliamento e il gusto nelle arti. E certe nostre industrie, da quella delle automobili o delle macchine per scrivere sino alle più alte tecnologie, sono etnonimo di qualità. Ennio Caretto Spesso sono i prodotti «made in Italy» che dettano negli Stati Uniti la moda dell'abbigliamento