Dipingono un'America senza storia

Dipingono un'America senza storia LE INDICAZIONI E LE SORPRESE DI UNA BIENNALE D'ARTE A NEW YORK Dipingono un'America senza storia Pittori, scultori e film-makers compongono una «generazione intermedia» che si rifornisce ai magazzini del passato recente e sembra quasi paralizzata nell'attesa - La curiosa tendenza al grandissimo, con cavalli, case e «Anite Ekberg» felliniane La clamorosa eccezione di un dipinto che rappresenta l'assassinio di Moro: davanti, sosta sempre una piccola folla NEW YORK — Whitney Museum. quarto piano, prima sala, «biennale» dell'arte americana contemporanea. Il progetto è una visione su tutto, dal video-tape alla scritta sul muro. Rapporto su un'America «dopo». Questa sensazione del «dopo», o almeno di un intervallo, di una stagione di messo, viene annunciata subito da una immensa scultura in ferro di Frank Stella. Ha la forza die si vedeva nei suoi «moduli» alla celebre, gallerìa Castelli (con forme geometriche nitide e pesanti). Ha gli stessi colori, cioè tutti, come nella festa sfrenata di un bambino. Ma la forma adesso è contorta, si piega, si inclina, si involve. come se fosse una materia molle. Soprattutto come se non avesse piti quell'assoluta certezza che la sua prima generazione di sculture sembrava avere. Il primo segnale di una lista d'attesa si nota dunque nei pochissimi nomi celebri che compaiono in questa «biennale». Per esempio, ancìie Roy Lichtenstein. Virìcordate le sue. allegre imitazioni dei fumetti, dell'Uomo Mascherato che bacia Diana? Roy Lichtenstein adesso, al Whitney Museum. sembra pensare non tanto al suo passato, quanto a tutta la pittura che viene prima, nel secolo. La sua opera più vistosa, qui, s'intitola Figure nel tramonto e sembra un Léger. Di Léger c'è la composizione di figure umane e oggetti che suggerisce uno strano paesaggio industriale. Di Léger c'è l'immagine elementare di un volto, c'è un sole che ricorda la ruota dentata, ci sono le forme ovali e i rettangoli sovrapposti. Di se stesso, di Roy Lichtenstein, c'è ancora la tecnica puntinata della pop art. Ma un occhio in mezzo al cielo, la deformazione (ornamentale, non industriale) della ruota dentata che è il sole, la riproduzione di una levigata superficie di legno: tutto dimostra mestiere, cultura, talento. E una grande incertezza. L'espressionismo astratto e tutte le gradazioni di sperimentazione astratta degli Anni Quaranta e Cinquanta tornano con i rettangoli scuri di Ellsivorth Kelly, un artista quasi sessantenne, con le nitide e graziose forme geometriche del trentenne Mei Brochner, nella superficie perfettamente nera, perfettamente spartita da una striscia rosso scuro che può evocare una imprecisa memoria di Rothko. Mainaltrodipinto, nella striscia più chiara, c'è un animaletto simbolico, una specie di lupa romana. Autrice è una ragazza nata nel 1948 che in diversi altri quadri ripete questo gioco di abilità: il piccolo animale sopra grandi superfici di colore uguale che fanno il verso alla nostalgia di due momenti opposti della pittura americanu: il 1950 e il 1960. Comunque il passato. Ma c'è novità, rivelazione di tendenze, di altro talento, di un modo diverso di pensare a un oggetto d'arte, quadro, scultura, assemblaggio, simbolo, gesto.' Temo che non ci sia risposta, anche se la mostra sembra organizzata con equanimità e con cura. Abbondano gli oggettini attaccati o incollati sul muro, come per ricordare che esiste l'arte minima e quella concettuale, ma senza alcun atto di esasperazione o di coraggio. Vi sono gesti di grazia, come tappezzerie, tappetini. cosine che si potrebbero usare senza scandalo in qualunque casa, sul tavolo davanti al divano. Ci sono esercizi di tecnica, come il mosaico o un nuovo genere di puntinato tnon quello di Lichtenstein. piii grande, ma con un effetto simile al mosaico vero) o usi ■.sperimentali.' (si vede bene che così li intende l'autore) del legno, del ferro, del plexiglas, della plastica. Non portano a niente. Vi sono eccessi, forse notarli può servire a qualcosa. Primo eccesso: il grandissimo. Viene praticato esclusivamente dalle donne, che rappresentano quasi il cinquanta per cento dei partecipanti Isaia un riflesso delle realtà o de nuova moda?) e che non n incano di energia. Alice Aycook. nata nel 1946. mette insieme una mezza stanza di grandi oggetti di legno (ma un bel legno caldo, levigato, desiderabile, non alla Ceroli) con il nome magico di Giorno felice per una incoronazione e un insieme di scale e di ruote che ricordano piuttosto un patibolo. Deborah Butterfield. di gran lunga la più giovane nella mostra (data di nascita 1949) ha talento da sprecare, un'evidente forza fisica e produce cavalli in grandezza naturale, uno in piedi, uno a terra, impastati di acciaio, filo di ferro e fango, cavalli mortuari e bellissimi che sembrano altrettanto incerti sulla loro esistenza, quanto la loro autrice, forse con la stessa espressione perduta, in marcia verso una terra che non esiste o non è stata scoperta. A trentotto anni Deborah Dennis costruisce case di Suburbia appena un terzo al di sotto della grandezza naturale, una specie di Giosetta Fioroni gigante in cui la nostalgia dell'infanzia diventa un oggetto un po' imbarazzante, più utile forse a una divagazione letteraria lo a un'indagine dell'analista) che alla mostra della nuova arte in America. Piena di qualità è anche una Mary Frank, quarantenne, che produce donnone di bronzo, trattando il bronzo come se fosse creta, alla maniera del primo Manza. Ma Fellini le ha rubato la fantasia. Ila disegnato per lei cuffie e veli e persino la proporzione Anita Ekberg delle sue statue. Tanta grazia, invece, nel lavoretto di Kenneth Priee luna credenzina tutta bianca e armoniosa con dentro piattini e vasetti dipinti, un amore, ma come si fa a giudicare un oggetto che starebbe altrettanto bene in una vetrina della Rinascente, magari come richiamo per una mostra del mobile?). Oppure nella casetta di James Surls. altro amante del legno, del piccolo e del grazioso anche se si lascia tentare, sia pure fiabescamente, dalla tragedia che può sempre esplodere nella vita adulta. Quello che si vede, infatti, è una costruzione in legno, sul pavimento, una cosa molto carina che può essere, mettiamo, una fattoria del Middle West, grande come una scatola. Dal tetto nasce una spirale di schegge di legno che si allargano fino a formare la nuvola di un tornado fTornado infatti è il titolo dell'opera) e provocando l'ammirazione incantata dei bambini in visita. Come avete notato, manca del tutto la storia. Non ci sono più Kennedy e non ci sono più King o simboli o ricordi della pace, della guerra, del Vietnam o di quel die volete. Manca, per esempio, quel riferimento ossessivo alla televisione (forma del teleschermo, rigato orizzontale della riproduzione tv, artificiosità dei suoi colori) che tanto spesso era comparsa nelle rassegne americane fino a cinque o sei anni fa (e che sospetto sia stata inventata da artisti come Mario Schifano e Franco Angeli in Italia, piuttosto che dagli americani. Ma gli americani, a causa della potenza delle loro gallerie, arrivano sempre primi). Manca quel riferimento ai giornali, o alle parti di giornali strappati Idi nuovo, probabilmente inventate in Europa da Mimmo Rotella, ma tutti pensano che sia stato Rauschenberg) che aveva ossessionato la generazione postastrattista. Ma — nonostante i versi e le citazioni — anche l'eredità del grande astrattismo americano, cosi carico di tensione, cosi duro, cosi tragico (si pensi a Pollock e a Rothko) sembra andata perduta. Tutto quello che resta è il cauto prodotto di nitide e accurate scuole di buon disegno. Poiché ormai film e videotape vengono — io credo impropriamente — considerati estensioni e pertinenza dell'arte figurativa, ecco che troviamo la nostra brava sezione video-tape e film. Pessima. Qui siamo di fronte a un modo opposto di non fare arte. Nelle sale «tradizionali» un'estrema prudenza, un astensionismo atroce impedisce a gente di talento di diventare pittori o scultori. Nella semi-oscurità dei video-tape e dei filmetti c'è invece una appassionata paura di essere bravi competenti, e originali. Tale è la paura di essere presi per «normali» autori dì televisione o di cinema, che tutto viene rovinato, anche tecnicamente, ridotto a vaghe evocazioni di idee che avrebbero potuto anche essere buone. Eppure Diane Arbus aveva dimostrato in modo perentorio, drammatico, che una fotografia impeccabile può essere un oirendo, originale, inaudito racconto. Questi artisti di mezza età della «biennale» di New York sembrano figli di quella cultura del narcisismo di cui ha parlato Christopher Lasche nell'unico saggio importante dedicato a questa generazione. Da luoghi confortevoli, con adeguati sostegni di fondazioni e di prestiti scolastici, sono occupati a fare cose carine, senza il bisogno di guardare fuori, senza il bisogno di cercare non dico il dato, ma almeno il clima, l'odore della storia, sono astronauti di un pianeta ordinato e quasi del tutto senza interesse. C'è una eccezione strana, clamorosa, e deve essere raccontata. Roger Brown, trentottenne, pittore, nato nell'Alabama, residente a Chicago, ha messo al centro della seconda sala il solo quadro che i visitatori guardano a lungo, con stupore e senza qridolini di ammirazione. Il quadro non è «carino», non fa casa di bambola, e non sembra un giocattolo. Si intitola L'uccisione di Aldo Moro e il terrore delle Brigate rosse. Mi sono accorto di questo quadro perché è il solo, nelle sale del Whitney, di fronte a cui si forma sempre una piccola folla in silenzio. Sotto un cielo pesante di nuvole grigie c'è il colonnato del Bernini che si apre in uno spazio molto largo. Ricorda l'Eur e. vagamente, le grandi piazze vuote del primo De Chirico. Davanti alla piazza, che è vista, in una prospettiva distorta, dall'alto, si aprono tre strade. Una si riconosce dagli obelischi, è Via della Conciliazione. In ciascuna delle strade vi sono auto con gli sportelli aperti, i fari accesi e un morto. Ombre armate si muovono, in fondo. Ombre timorose si vedono nel giallo chiaro delle finestre. Alcune spiano la strada, altre voltano le spalle alla scena. Il corpo di Moro è nell'automobile aperta e abbandonata più vicina a San Pietro. Il colore è blu e grigio. Splende soltanto il giallo delle finestre accese e chiuse, i fari delle automobili ferme, ciascuna con un cadavere. Nonostante le ricerche fatte presso il suo gallerista, non sono riuscito a sapere se Roger Brown è stato di recente in Italia. Ma certo qualcosa ha strappato la tappezzerìa gradevole e anonima die continua a fasciare gli studioli confortevoli dei suoi tranquilli colleghì. Di essi diranno forse gentilmente i crìtici che si tratta di «una generazione intermedia». Furio Colombo Roger Bromi: «L'uccisione di Aldo Moro e il terrore delle Brigate rosse». Il quadro è esposto a New York