«Feltrinelli, perché è andata così» di Lietta Tornabuoni

«Feltrinelli, perché è andata così» INGE SCHOENTAL PARLA DELLA MORTE E DELLA VITA DELL'EDITORE «Feltrinelli, perché è andata così» Dopo il processo di Milano, la donna che per dieci anni ha vissuto con lui, gli ha dato un figlio e ne continua il lavoro culturale, insiste: «Le Brigate rosse e la polizia hanno torto. L'hanno ucciso, me l'ha detto il capo di un governo» - La clandestinità: «Provo ancora una grande rabbia per la sua scelta» - Era «un irregolare che non apparteneva a niente e a nessuno» - «Il figlio non lo mitizza» - «Se fosse vivo si ammazzerebbe» ROMA — Inge Schoetual parla della morte e della vita di Gian Giacomo Feltrinelli, il padre di suo figlio Carlo, l'uomo con cui ha vissuto per più di dieci anni e di cui continua il lavoro culturale occupandosi della casa editrice, delle tredici librerie e della Fondazione Feltrinelli. Appena conclusosi a Milano, il processo ..Gap-FeltrinelliBrigate rosse» ha rievocato tutti i dubbi che da sette anni circondano la fine dell'editore, dilaniato dall'esplosivo ai piedi d'un traliccio dell'alta tensione a Segrate il 14 marzo 1972. e ha riproposto tutti gli enigmi del suo personaggio emblematico. Inge | Schoental ne parla con rabbia, con dolore: non è una donna fragile, ma sette anni vissuti con il nome Feltrinelli sono stati a volte troppo duri anche per lei. Cosa pensa di quest'ultimo processo? — Una farsa, un simbolo di come va male l'Italia, un pasticcio impasticciato apposta per non chiarire niente. Io non credo die Gian Giacomo sia morto per ..un errore tecnico da lui stesso commesso». come hanno detto al processo Curdo. Semeria e gli altri delle Brigate rosse, dando della sua fine una versione identica a quella della polizia. Io credo che Gian Giacomo sia stato ucciso, e che il suo assassinio sia stato occultato con un falso incidente. Perché lo crede? — capo di un governo mi ha detto che ci soìio entrati i servizi segreti israeliani, tedeschi e francesi. Il buon senso mi dice che troppe cose non tornano. Addosso al suo cadavere trovarono tutti i documenti, la fotografia di Carlino: e uno che va a compiere un atto di guerriglia, un sabotaggio, si porta dietro roba simile?Ridicolo. Anche un rivoluzionario da film o da romanzo conosce la prima regola della clandestinità: in azione si va «puliti», sema segni d'identificazione. Dicono: il timer che doveva regolare l'esplosione ha funzionato male, lo scoppio è avvenuto prima del previsto e l'ha ucciso. Ma l'altro timer, posto a un secondo traliccio, funzionò perfettamente: perché il suo no? Gian Giacomo non era uno di Quegli intellettuali inabili che non sanno neppure piantare un chiodo. Era un gran cacciatore, pescatore e uomo di vela, aveva molta abilità manuale, era abituato a maneggiare le armi e i piccoli meccanismi. Non era uno di quei ricchi pigri e goffi, era sanissimo, autosufficiente e molto sportivo, abituato alla fatica fisica e alla vita scomoda: quando lo incontrai la prima volta a una festa ad Amburgo, nel 1958. stava partendo, andava per due settimane in Lapponia. in tenda, da solo. Dicono: ha perso piede, è caduto dal traliccio e s'è sfracellato a terra. Ma Gian Giacomo era un rocciatore sin da bambino, aveva fatto ascensioni in montagna per tutta la vita, mica era un sedere di pietra. E poi altre duecento cose strane, tante domande rimaste senza risposta logica... Perché nella notte tra il 15 e il 16 di marzo, anzi alle cinque del mattino, arrivò per primo, a prendere il portinaio di casa nostra per portarlo a identificare il cadavere, quel commissario Calabresi che poi sparì totalmente dalle indagini e poco dopo venne ucciso? Lei gli era stata vicina, nell'ultimo periodo della sua vita? — No. Io non volevo essere coinvolta in quella specie di vita, non volevo entrarci: il mio compito era quello di salvaguardare le altre cose, la casa editrice e le librerie, la vita di Carlino. Ma il 15 marzo 1972avevamo un appuntamento: voleva vedere nostro figlio, m aveva chiesto dì portarglielo a Lugano. Dovevamo incontrarci sulla piazza principale, di fronte al lago. Siamo rimasti lì per ore e ore. tra i caffè pieni di turisti, nel sole d'una bellissima giornata. Carlino era impaziente, come può esserlo un bambino di nove anni: ne! tardo pomeriggio aveva un incontro di calcio a scuola, non voleva perderlo. Aspettavamo: una Coca Cola, due Coca Cola, tre. un giornale, mangiare, guardarsi intorno, controllare continuamente l'orologio, l'ansia... Lo aspettavamo, non arrivava, non arrivò: era già morto. Eravate ancora insieme? — No. Gian Giacomo era sparito nella clandestinità fi 5 dicembre 1969. Venne a colazione a casa, c'era a tavola anche un amico di Carlino disse: .La mia situazione è diventata pericolosa, deve andare via. starò via per lungo tempo, per un tempo che non so». Vivei'a già con Sibilla Melega. poi l'avrebbe sposata. Eravamo separati da due anni, una catena di sbagli di tutti e due. ma se davvero hai amato un uomo lo ami per sempre: che lui abbia altre e tu altri non significa niente, l'amore amico non finisce, non è qualcosa di cui si possa dire «non esiste più. lo cancello:. Rimane per sempre. In quei tre anni, sino alla sua morte, vi siete visti? — Si. Ogni tanto, una sua lettera mi fissava un appuntamento. Ci incontravamo di rado, per lo più in Svizzera, parlavamo dei problemi della casa editrice. Brutti problemi, duri. Una settimana dopo la sua sparizione, accadde la tragedia di piazza Fontana, e cominciò il linciaggio: dissero che c'entrava Feltrinelli. Da allora: attentati a tutte le librerie, le banche ci broccavano il credito, ci mancavano i soldi per gli stipendi e per versare gli anticipi agli autori di libri. Eravamo con le spalle al muro, arrivavano telefonate anonime: ..Dica a Feltrinelli che la sua vita è in pericolo, gli dica di stare attento, di guardarsi». Come giudicava allora la sua scelta, come la giudica adesso? — Allora mi sentivo molto amara e furibonda, trovavo tutto cosi irrazionale, surreale. Sette anni dopo ne provo ancora una grande rabbia dentro il cuore: Gian Giacomo avrebbe potuto usare la sua forza intellettuale e il suo potere in modo istituzionale. Non è andata cosi e ne provo dolore per lui: ma forse non sarebbe mai riuscito a integrarsi, era un «selvaggio" di umori e decisioni totalmente imprevedibili. Uno strano misto: un pessimista aggressivo, un romantico con grandi qualità di organizzatore, un impaziente della speranza. Tutto gli sembrava troppo lento per cambiare l'Italia: troppo lento il partito comunista, troppo lento il lavoro culturale della casa editrice. Quanto aveva fatto era già straordinario per uno della sua classe sociale e ricchezza: quelli del suo ambiente oggi hanno portato i soldi in Venezuela o in Canada, vivono a Montecarlo o nel Canton Ticino. Ma a lui quello che aveva realizzato non bastava: voleva cambiare le cose a tutti i costi, e presto. Se oggi fosse vivo, e vedesse come sono finite dieci anni dopo le speranze italiane del Sessantotto, si ammazzerebbe. Cosa pensa di lui vostro figlio? — Carlino ha diciassette anni, fa il liceo al Parini di Milano, è iscritto ulta Federazione giovanile comunista Gian Giacomo e lui si amavano visceralmente, tra padre e figlio c'era una simbiosi totale: tra loro io non esistevo, sparivo. Adesso Carlino vive molto con amici e collaboratori che avevano con suo padre un rapporto assai dialettico. Non ha mitizzato il padre, non lo rifiuta: apparentemente ha superato il trauma della sua fine. Un trauma terribile: quella specie sanguinosa e misteriosa di morte, poi i giornali, i fu- I nerali, la polizia, i compagni di scuola che per anni hanno continuato a dirgli .tuo padre era un criminale, quel terrorista di tuo padre», la i triste notorietà che da anni lo circonda, le guardie private sempre addosso per proteggerlo... Non so. Il trauma sembra superato: ma capita che i ragazzi mandino giù tutto, e che poi tutto torni fuori magari vent'anni dopo. Al processo, il pubblico ministero ha detto: «Feltrinelli non era un buffone e nemmeno un pazzo, bensì profondamente complessato»: il comunicato delle Brigate rosse diceva: «Non è una vittima ma un rivoluzionario caduto combattendo». Che impressione le fa leggere sui giornali cose simili? — Battute da palcoscenico, da commedia o tragedia all'italiana. Credo che nessuno l'abbia capito mai. Gian Giacomo: neppure i vecchi amici. Tanto meno quei giornalisti che in tono da padreterni, con quel disprezzo che è tanto facile usare verso i morti, l'hanno descritto come scervellato, stupido, velleitario, un ricco avaro, un boy scout della politica, un rivoluzionario dilettante, un nevrotico | col complesso di Edipo, un povero scemo. Tanto meno t'hanno capito tutti quelli che. per ostentare una familiarità mai avuta, l'hanno chiamato «Giangi»: un nomìgnolo di bambino con cui : nessuno l'aveva più chiamato dai vent'anni in poi. In sette | anni questa nebulosa di parole, infami, ignoranti, cretine o vili che fossero, ha partorito un uomo inesistente. Com'era invece, secondo lei. Feltrinelli? — Un outsider, im «irregolare»: non un tipico ricco, né un comunista tipico, né un editore di sinistra tipico, né un tipico guerrigliero. Uno che non apparteneva a niente e nessuno, quindi scomodo per tutti. In questo Paese devi appartenere, stare in una classe, in un partito, un clan, una professione. Se vai fuori, sei finito. Gian Giacomo è andato troppo lontano, e non è rientrato mai più. Ha sempre cercato d'andare via, per tutta la vita. Da ragazzino ha tentato di scappare dalla famiglia, dalla subordinazione adolescente, dal castello di Villadeati nell'Astigiano dove viveva al riparo dalla guerra: s'era fatto amico dei giardinieri comunisti, voleva andare in montagna a fare il partigiano. L'hanno riacchiappato e mandato a stare in Vaticano. Ha tentato di scappare dalla sua classe: s'è iscritto al partito comunista, ha sposato la prima bella ragazza comunista che ha conosciuto. Ha tentato di scappare dai condizionamenti della sua gran¬ de ricchezza: l'ha impiegata per creare la casa editrice e l'archivio di storia dei movimento operaio, per finanziare molto molto generosamente tante iniziative della sinistra, per caricarsi di doveri, di responsabilità. Ha tentato di sfuggire all'isolamento, di riuscire a vivere con gli altri: ma era cresciuto solitario e separato come un principe, istruito dal precettore, e uno che non è mai andato a scuola non impara a capire la gente, cosi nel valutare le persone si sbagliava moltissimo. Ha tentato di scappare dalla maturità, dai quarantanni: il Sessantotto gli sembrò l'occasione di vivere quella gioventù d'entusiasmo, di molta e d'allegria che non aveva avuto. E la clandestinità? — Era riuscito a combattere per poco tempo, nel 1944. andando al fronte come giovanissimo soldato semplice aggregato all'esercito inglese, nell'ultimo periodo della c'ierra in Italia. Provava verso la lotta partigiana un'intensa nostalgia-rimorso, e aveia grande amore per la guerra di Spagna del 1936: ne j aveva trovato documenti storici rarissimi, film, lettere, andando a cercarseli in Spagna, raccogliendoli in un'enorme sezione della Fonda- j zione Feltrinelli. Seguiva con passione partecipe i movi- I menti di liberazione nazionale del Terzo Mondo, aveva aiutato molto i combattenti algerini, era amico dei cubani: conosceva da vicino i pro- ; tagonisti e i momenti delle rivoluzioni armate riuscite, vittoriose. All'inizio degli Anni Settanta, il timore del golpe di destra dominava e angosciava tutta la sinistra. Tutti avevamo paura di svegliarci al mattino coi carri armati per le vie. politici e sindacalisti cambiavano ogni notte la casa dove dormire per evitare j d'essere arrestati: e. come s'è visto, non erano fantasie, un progetto magari ridicolo di golpe cera, un tentativo fal- | lito venne compiuto. Gian Giacomo ha creduto che i modi della guerra fossero gli unici praticabili, validi: forse | da ingenuo, pensava che si dovesse salvare il Paese da I un nuovo fascismo, e intendeva battersi. Io non voglio ] mitizzare né mistificare: ma Feltrinelli era un uomo onesto, e aveva coraggio. Con il nome Feltrinelli, come ha vissuto questi sette . anni? — Sono orgogliosa di questo nome di battaglia che , porto. Subito dopo la morte di Gian Giacomo, era una ve- ! ra sfida quella di portare avanti la casa editrice, di restare gente d'intervento e cri- ! fica anche verso la sinistra. I come dimostra la pubblica- i sione recente dell'Archivio i Pietro Secchia. Ma sono stati ! anni molto difficili. Cinque, sei volte, polizia o carabinieri hanno continuato a perquisi- I re il castello di Villadeati. | senza trovare niente: vi sono entrati strani ladri a portar via soltanto vecchi vestiti di I Gian Giacomo, senza toccare la roba di valore. E poi ci sono stati attacchi, sospetti, prepotenze, attentati. Anche \ adesso, ancora adesso, abbiamo paura sempre. Le librerie Feltrinelli sono I diventate un luogo simbolico I della cultura di sinistra: ogni volta che i fascisti manifestano, a Padova come a Roma o altrove, per prima cosa spac¬ cano le nostre vetrine, appiccano fuoco ai nostri libri, e c'è gente che finisce all'ospedale solo perché si trovava in libreria. Siamo sempre nell'occhio del tifone, a ogni bomba dobbiamo ricominciare da capo, a ogni attacco sia¬ mo costretti a ripetere che non c'entriamo con le Brigate rosse né col terrorismo, che non siamo finanziati da Craxi né dal pei... Se fossimo finanziati, forse saremmo meno soli: ma quando arriva il momento politico brutto, tranne i vecchi amici nessuno ci dà una mano, nessun partito, nessuna organizzazione, sindacato o gruppo Anzi ci s'è messo pure Andreotti. a dire alla televisione: «1 terroristi hanno imparato a fabbricare le molotov sui libri comprati alla Feltrinelli». Bel ragionamento: sarebbe come dar la colpa al Manuale di tiro se i terroristi sparano a qualcuno. Andreotti potrebbe far qualcosa, piuttosto, perché la gente non si riduca al punto dì sparare. Alla Feltrinelli si vendeva una rivista, e in un Paese democratico si può pubblicare e vendere anche quella. Come pensa lei oggi a Feltrinelli? — Quando è il 14 marzo vado là al Cimitero Monumentale di Milano, dove c'è la sua tomba. Disolito, con Carlino: ma quest'anno ero sola. Lo faccio per me. è come una passeggiata per pensare a Gian Giacomo, per concentrarmi nel ricordo di lui. per farmi l'autocritica e dialogare nella mente con lui su quel che devo fare, sulle decisioni da prendere. E' una cosa un po' rituale e cerimoniale, lo so: ma la faccio lo stesso. L'assenza di Gian Giacomo resta un vuoto buio, la perdita senza rimedio di un grande momento della mia vita. Lietta Tornabuoni Inge Schoental c il figlio Carlino ai funerali di Feltrinelli