Gli errori di Turati

Gli errori di Turati SOCIALISMO E RIFORMISMO IN ITALIA Gli errori di Turati 4 dicembre 1978. Aula magna dell'Università di Genova. E' previsto un dibattito fra Norberto Bobbio e chi scrive queste note sul tema «Terza via. terza forza»; lo ha organizzato, con precisione meticolosa e quasi puntigliosa. l'Istituto di filosofia del diritto di quell'ateneo, sulla scia del dibattito ideologico aperto da qualche mese. Sono i giorni infuocati del primo decreto Pedini sul personale universitario; si temono manifestazioni di gruppi di precari. Bobbio, il mattino, all'Università di Torino, ha dovuto fronteggiare un principio di contestazione — per la prima volta dopo le esperienze, che sembravano remote, del '68 — per aver sottoscritto il manifesto di Sylos Labini sui rischi dell'ope legis e sui pericoli della dequalificazione universitaria; come presidente, allora, della commissione Istruzione del Senato avevo ricevuto da parte mia qualche invito, neanche troppo cortese, ad annullare il viaggio a Genova, a cancellare quella tappa. L'aula magna è letteralmente pigiata di studenti, compresi numerosi extraparlamentari; non meno di un migliaio. Ma non ci sarà un solo incidente, non una sola provocazione. Il dibattito sarà ampio, articolato e approfondito: dopo le due relazioni, almeno una ventina di interventi, corretti, talvolta extravaganti, talvolta pene- '. tranti nella sostanza, da parte del pubblico, soprattutto dei più giovani. Ma nessuna invettiva o insolenza, nessun richiamo a decreti universitari, o altro. D tema centrale è quello che Bobbio ha già impostato da mesi coi suoi magistrali articoli sulla Stampa, che già l'ufficio studi del Senato, come sempre diligentissimo. ha raccolto, con la sterminata coda degli interventi susseguenti, in un vero e proprio volume: può esistere una terza via al di fuori di quella socialdemocratica, occidentale, e di quella comunista, orientale? Bobbio ha già risposto «no»', deludendo insieme Craxi e Berlinguer, su tutto il resto divisi. Inseritomi nella polemica, proprio da queste colonne, ho suggerito una variante all'impostazione di Bobbio, pur concordando fondamentalmente con lui: la seconda, o prima via, di tipo socialdemocratico dovrebbe essere più correttamente chiamata «democratica» tout court, in quanto comprensiva di esperienze di tipo socialista riformista — la Scandinavia, per esempio — non meno che di esperienze democratiche pure e semplici, senza neanche un principio o un'ombra di socialismo, senza l'uso del termine, come il New Deal rooseveltiano degli Anni Trenta. Ma il discorso è più largo, e porta più lontano. Investe la parola «socialismo», così carica sempre di suggestione ma anche di mistero. Socialismo eguale a socialdemocrazia?: Bobbio lo ha affermato con quell'asciutto rigore che sempre lo caratterizza, Saragat ha plaudito, Craxi ha scosso la testa, l'ambizioso psi del nuovo corso è rimasto deluso e imbronciato. Ma nell'arco della storia italiana — incalzo — non fu sempre così, il corso delle scissioni, quasi connaturali al socialismo di casa nostra, ritmò una storia di incertezze e di antinomie ideologiche mai composte, quasi in proporzione diretta alle incertezze e antinomie di fondo della società italiana (dove tutto era anomalo in partenza, dal liberalismo al socialismo). * * E volli ricordare in quell'occasione, in quella sede, una vicenda pochissimo nota, messa quasi sempre in ombra nelle storie, o ministorie, del socialismo italiano, volentieri evitata o aggirata; la crisi degli Anni Dieci-Dodici, la scissione di Reggio Emilia, con l'espulsione dei riformisti e la vittoria di Mussolini «rivoluzionario», una crisi di identità del socialismo italiano, una crisi che coinvolgeva anche la parola, l'espressione sacra «socialismo». Fino quasi a delineare per un attimo una forma di «Iaborismo» all'italiana. A metà del 1910 ci fu qualcuno che pensò di cambiare il nome del partito socialista, pur così legato all'età eroica dell'emancipazione operaia, in partito del lavoro. E quel qualcuno non era un militante di seconda fila ma era il leader della Confederazione generale del lavoro, nata da quattro anni ma già vigorosa e fiorente. Rinaldo Rigo'a. «Partito del lavoro»: ricordavo di aver visto una cartella con quella significativa intestazione. all'archivio di Stato di Roma, nei documenti Rigola consultati dal mio indimenticabile amicò Fernando Manzoni per la sua storia del socialismo riformista bissolàtiano. 1910-1912. Erano gli anni ricordai a Genova — in cui Croce, allievo e continuatore, per tanti aspetti, di Antonio Labriola, decretava la «morte» del socialismo e Giolitti, l'interlocutore ideale di Turati, lo confinava in soffitta e il termine affascinante per la generazione fra il 1890 e il 1900 allora anche Ojetti era socialista — suscitava un senso di fastidio, di irritazione, di dispetto o di ripulsa. «Se il partito socialista - aveva scritto Rigola nel giugno 1910 — non era che un conglomerato di legulei, di osti, di salumai, di mezzi operai, mentre l'organizzazione economica si occupava solo di questioni immediate e materiali, il partito del lavoro avrebbe dovuto eliminare tali inconvenienti, attribuendo direttamente ai sindacati la funzione parlamentare». Cioè «trade-unionismo» all'italiana, una forma di labourparty dove il momento politico e il momento sindacale si identificassero, al servizio di una battaglia condotta con le stesse armi nel Parlamento e nella lega, al vertice e alla base. i * * Il dibattito di Genova, e la variante su socialismo e no. mi sono tornati in mente in questi giorni leggendo una stimolante e dissacrante introduzione di Franco Livorsi, un giovane vivacissimo storico torinese, ad un'esemplare antologia di Filippo Turati curata per la collana «Il pensiero socialista» di Feltrinelli: Socialismo e riformismo nella storia d'Italia. Scritti politici 1878-1932. Livorsi. che ha già curato un'antologia di Bordiga e non teme quindi né l'eresia né l'impopolarità, non esita a parlare, in più parti del suo saggio, di quel progetto di Rigola e delle speranze del «partito del lavoro» nella crisi interna al riformismo socialista — che non seppe scegliere -- e dell'errore.' o debolezza, di Turati nell'aver consentito a Reggio, in quel giugno 1912, l'amputazione del braccio social-riformista del suo partito, un'amputazione da cui non si riebbe mai. Per la verità l'analisi di Livorsi va più in profondità. Investe il riformismo socialista, quello che accomuna Turati e Bissolati almeno fino alla svolta del '10, nelle sue radici ideali, nella sua essenza profonda. Livorsi lo considera nient'altro che una variante interna al riformismo liberale. Agli occhi di questo studioso, che rifiuta tutti i residui di tradizioni stuc¬ chevoli e ragiona con la propria testa, è Giolitti che riesce a «egemonizzare» la corrente, pur vasta e impetuosa, del riformismo socialista dei primi del secolo, che ne assorbe tutte le motivazioni, che ne svuota tutte le caratteristiche peculiari. L'autore dell'antologia non assolve il suo protagonista. Turati, dall'accusa di un minimo di doppiezza e di ambiguità nell'aver tollerato la separazione di Reggio Emilia, il distacco dall'antico compagno di cordata Leonida Bissolati e da Bonomi e da Cabrini, senza avere «alcuna politica riformista di ricambio». Nelle ultime taglienti pagine dell'introduzione, e pur senza ricordarlo, Livorsi si muove nella logica di un grande storico e amico cui ritorna spesso la nostra memoria. Luigi Salvatorelli, l'uomo che non esitava a ipotizzare, in dissenso coi criteri del più rigoroso storicismo, cosa sarebbe successo in una certa fase storica, se... non si fossero verificate certe scelte (per esempio, nella marcia su Roma, la rinuncia del re a firmare lo stato d'assedio). In questa ottica Livorsi si spinge con qualche audacia — ma noi non lo rimproveriamo — a scrivere, in chiave di supposizione, che insieme Turati e Bissolati avrebbero mantenuto l'egemonia riformista sul psi e bloccato l'ascesa di Mussolini (dal socialismo al fascismo) e consentito un governo giolittiano lungo, che — aggiunge l'autore — avrebbe forse evitato l'intervento nella prima guerra mondiale o che sarebbe intervenuto a tempo con l'America, cioè alla fine del conflitto. Fino ai necessari riflessi su Nitti e Giolitti e il '20-'21. Non andiamo tanto oltre. Limitiamoci a constatare che la fine dei sogni laboristi, comunque motivati, coincise in Italia col tramonto degli ideali del socialismo democratico, nel loro inscindibile nesso, con l'avventura di Mussolini direttore dell'Avariti!, con la pittoresca commedia o tragicommedia della settimana rossa, con la successiva frattura fra interventisti mussolini-ani e maggioranza neutralista. Quanto a Giolitti, Turati confessò una volta alla Camera, nel 1913, di non aver mai capito, «quando l'onorevole Giolitti ci concede qualche cosa a cui noi teniamo, se lo faccia per secondarci o per corbellarci». «Eppure — aggiunge — io siedo in questa Camera da quindici anni, parecchi amici vi stanno da tempo anche più lungo». Il dramma del riformismo socialista era tutto in quell'interrogativo irrisolto. Giovanni Spadolini