Perché i tedeschi credono nell'Europa

Perché i tedeschi credono nell'Europa UN ARTICOLO DI GOLO MANN SULLE ELEZIONI DI GIUGNO Perché i tedeschi credono nell'Europa Dalla perdita di uno Stato nazionale la spinta verso qualcosa di nuovo: Brandt divenne cancelliere quando il suo partito sposò questa idea - La scelta fra la rìunificazione con la Rdt e l'ingresso nell'area occidentale è oggi un fatto istintivo Lo storico Golo Mann, figlio dello scrittore e premio Nobel tedesco Thomas Mann, è nato settantanni fa a Monaco di Baviera. Quando Hitler prese il potere, la famiglia emigrò, dapprima in Francia e poi in America. Vent'anni fa, Golo Mann ritornò in Europa. La sua «Storia della Germania del 19° e 20° secolo» e la sua «Biografia di Wallenstein» sono considerati capolavori della storiografia. E non ha mai avuto paura di prendere posizione nelle più brucianti questioni d'attualità. In questo articolo per «Europa» Golo Mann risponde ad un interrogativo inquietante: perché nessun uomo politico tedesco ha il coraggio di dire che è contro l'Europa unita? Se ci si domanda in quale Paese della Cee l'atteggiamento verso l'Europa d'interesse per le elezioni dirette al Parlamento europeo sono più positivi e — si è ten tati di dire — più festosi, nessuno può esitare a rispondere: nella Repubblica federale tedesca. In tutti gli altri Paesi agiscono resistenze aperte che attraversano la strada ai partiti e tentano di sminuire il significato delle elezioni. In Germania, no. Dei quattro partiti rappresentati nel ■Bundestag non ce n'è alcuno che non pronunci un «si» convinto e che non faccia grandiosi preparativi per la campagna elettorale. E con loro sono il 99 per cento dei cittadini. I gr-ippuscolì dell'estrema destra e sinistra non contano: possono essere al massimo un elemento di disturbo, un fattore psicologico, non politico. Questa adesione e speranza europeista dei tedeschi non costituisce più una novità. Ma se si pensa al passato della nazione, non è poi una cosa tanto naturale. Come spiegarla? Una ragione viene citata più frequentemente. Inglesi e francesi hanno potuto conservare i loro Stati nazionali (che trovano radici più o meno profonde nel passato) anche attraverso i periodi più torbidi di questo secolo, e così gli italiani. I tedeschi no. Essi hanno perduto il loro Stato nazionale, il «Reich». Questa perdita risale a «prima» del crollo del 1945. Il «Terzo Reich» di Hitler aveva già significato la dissoluzione dello Stato nazionale. Se Hitler — cosa difficile da pensare — avesse vinto la guerra, avremmo avuto a che fare con una cosiddetta «Germania» che si estendeva a distanze sconfinate verso Ovest, Nord e soprattutto verso Est, non con uno Stato europeo come la Germania è diventata appena nella seconda metà del 19" secolo con molta fatica, astuzia, violenza e abilità creativa. Alla pazzesca dilatazione del 1942 seguì tre anni dopo il terribile restringimento dello spazio abitato tedesco, e la partizione in due Stati di ciò die era rimasto. Tutto il corso più recente della storia si è quindi capovolto, in un modo che non si verificò nemmeno per gli italiani, e tanto meno per gli inglesi e i francesi, per non parlare delle nazioni più piccole. Se questo esito, con la sua amara fine, sia stato inevitabile o se avrebbe potuto essere evitato, non sarà discusso in questa sede. Naturalmente credo che avrebbe potuto venir evitato, non sono un fatalista. In ogni caso questa era la situazione iniziale: miseria e confusione al di là d'ogni immaginazione. Uscirne attraverso qualcosa di nuovo, l'adesione ad una federazione europea, più esattamente europeo-occidentale, e trovare pace all'interno e all'estero con piena sicurezza militare era negli anni dopo il 1945 l'aspirazione della grande maggioranza dei tedeschi, anche se articolata soltanto là dove si ebbe una vita politica libera. Konrad Adenauer comprese questi sentimenti e agì di conseguenza. I suoi avversari socialdemocratici non li compresero per dieci anni. Essi giocarono la carta «nazionale». Erano contro il «Cancelliere degli alleati», contro la Nato, contro la Comunità. E fin quando i socialdemocratici ebbero queste idee, non fecero progressi. La loro ascesa, culminata con l'elezione di Willy Brandt a capo del governo nell'autunno 1969, andò di pari passo con la loro trasformazione in buoni europei. Oggi prendono sul serio le elezioni dirette almeno quanto fanno gli altri partiti, se non ancora di più. Prima degli altri hanno dato inizio a manifestazioni che devono costare un bel po' di soldi; ci fanno sapere che chi è per l'Europa deve votare socialdemocratico. Chi si ricorda dell'epoca di Adenauer. tro- vera questa propaganda un po' comica. Ma non è disonesta. Si prende atto di una realtà di fatto, la si sia desiderata o no, e si cerca di influenzarla e sfruttarla a modo proprio. Una «Europa dei lavoratori», dunque, invece d'una «Europa dei mercanti», un'Europa socialista o sindacale. Il pensiero è duplice: rafforzare i socialisti europei occidentali, per esempio spagnoli, mediante il potente appoggio della socialdemocrazia tedesca, influenzare con una Europa occidentale socialista la Repubblica federale, e forse questa ragione di fondo può anche essere la più. importante. Chi non è socialista, deve trovare irritante questa strategia ed è portato a combatterla. Ma è incontestabilmente europea. Se dirigenti sindacali tedeschi si presentano come candidati per il Parlamento europeo, perche non dovrebbero farlo? Anche nel Bundestag di Bonn ci sono sindacalisti a non finire. La fusione di attività sindacale e politica è da tempo un fatto compiuto, la non partiticità dei sindacati unitari tedeschi è da lungo tempo una pura finzione. Come si potrebbe tenere lontana ■ da Strasburgo questa realtà? Sull'atteggiamento europeistico dei partiti dell'unio- ne non c'è da spendere molte parole: esso risale alla nascita della Repubblica federale, o ancora prima, e nessuna delusione può incrinarlo. E se l'unione si volge contro un'Europa socialista, anzi un'Europa di fronte popolale, questo non vuol dire che essa sarebbe favorevole ad un'«Europa 'dei mercanti». Questo non era Adenauer, e lo si potrebbe dimostrare con gli esempi più concreti. Un'altra domanda viene posta, particolarmente in Francia. Non c'è una contraddizione tra il patriottismo europeo dei tedeschi — perché così possiamo veramente esprimerci — e le loro pretese mai abbandonate d'una riunificazione o d'un qualche tipo di riunione con i loro compatrioti della Rdt? Ogni progresso dell'integrazione europeo-occidentale non significa allontanarsi d'un altro passo dalla realizzazione di questa speranza? L'argomento ha una sua logica. Proprio con esso i socialdemocratici hanno combattuto la politica di Adenauer negli Anni Cinquanta. Mentre progettavano «piani tedeschi» del tutto irreali, deploravano la non presa in considerazione della «nota di Stalin» del 1952 e così via. Tutte iniziative nelle quali non ebbero successo, nemmeno presso gli elettori tedeschi. E proprio per questa ragione hanno cambiato condotta negli Anni Sessanta. Certo è che la Repubblica federale, nonostante tutti i trattati con la Repubblica Orientale, i quali di fatto ne significano il riconoscimento, non può e non potrà mai lasciare cadere la richiesta d'una riunificazione di tutti i tedeschi nella libertà. Nessuno riconobbe questa realtà meglio di Charles De Gaulle. Non che egli stesso avrebbe_desiderato di cuore la scomparsa della Rdt; questo no. Ma la sua intuizione e il suo senso per l'Europa delle nazioni non si lasciavano trarre in inganno dagli specifici interessi d'equilibrio francesi. Fin qui, nessun dubbio. Ma anche i cittadini della Repubblica federale e i loro uomini politici vedono oggi la realtà senza illusioni. Essi sanno che la Rdt sussisterà finché all'interno dell'impero russo non si verificheranno le trasformazioni più radicali, vale a dire finché l'impero russo, nella sua forma attuale, non crolli. Questo accadrà sicuramente, ma nessuno sa quando, se fra due o venti o duecento anni: verosimilmente il numero è più vicino a venti che a due, ma anche più vicino a venti che a duecento. Speculazioni di questo genere, con buona pace di Egon Bahr, non servono per piani di qualche valore prati¬ co, ma non vietano che si mantenga quella giusta aspirazione. Nel frattempo si deve svolgere una politica costruttiva, là dove è possibile. Infine, e soprattutto inFrancia, esiste la preoccupazione che la Repubblica federale potrebbe aver bisogno d'una Europa fortemente integrata par aumentare la propria influenza, in particolare grazie alla sua superiorità economica, e alla fine forse conquistarsi una posizione egemonica. Le esperienze avutesi nel passato, in particolare tra il 1850 e il 1945, rendono comprensibile questa preoccupazione. Come vecchio e attento osservatore della realtà tedesca, credo di poter affermare: è uno sbaglio. Qui vale la parola di De Gaulle: «I tedeschi sono cambiati». Il senso d'una continua minaccia, d'una adesione ai loro alleati occidentali e di conseguenza una cauta attenzione sono dive¬ nuti, in loro.da più di trent'anni, un fatto istintivo. E anche se questa continua minaccia del loro Stato, e soprattutto di Berlino, non ci fosse. Assolutamente nulla sulla terra interessa così poco i cittadini della Repubblica federale come il desiderio di dominare altre nazioni Vogliono vivere, vivere bene, lavorare, esportare, viaggiare in lungo e in largo per il mondo, vogliono essere amati, cosa che non sempre gli riesce, vogliono vivere a casa propria con quel tanto di libertà, sicurezza e pace che è possibile. E hanno spinto così incredibilmente avanti questo modo di pensare, dai tempi di Hitler o del Kaiser, che non lo cambierebbero con nessun altro, in un futuro prevedibile. Del resto l'«europeismo» dei tedeschi è così nuovo e Gèlo Mann (Segue a pag. IV)