Chi ha paura del cattivo Tom Wolfe di Furio Colombo

Chi ha paura del cattivo Tom Wolfe INTERVISTA CON LO SCRITTORE CHE INVENTO' IL «RADICAL CHIC» Chi ha paura del cattivo Tom Wolfe Un tempo coccolato da tutti, è evitato e temuto da quando, con «Il mondo dipinto», assalì gli ambienti artistici - Vede nell'attività culturale solo censure e Gulag - «Andy Warhol - dice - ha capito tutto» - Ha finito di scrivere un libro sugli astronauti, che vede come robot non troppo intelligenti, esemplari di una vita futura - Comunismo e passioni religiose NEW YORK — Tom Wolfe è di buon umore, ha finito il libro. Facciamo una festa? Il direttore di una prestigiosa rivista letteraria di New York risponde fra i denti: «Se c'è Tom Wolfe non posso venire». Due scrittrici fanno sapere che «è di cattivo gusto invitare Tom Wolfe senza avere letto tutti i suoi libri». Sottolineano in acuto la parola «tutti» per fare capire che non si possono dimenticare alcune pagine specialmente offensive. «Essere chiamata radicai chic e poi fargli festa mi sembra un po' troppo», vibra la voce gelata della socialite neivyorkese. Tom Wolfe e io sediamo da soli in una trattoria fintofrancese. Qui. fra Perrier e Pernod, il suo cappello a falde larghe e morbide fa un po' Aristide Briand. Lui certo se ne accorge e non gli dispiace. Ha occhi fini e azzurri, capelli fini e biondi (i biondi come lui vanno verso il bianco saltando il grigio, e non è una fortuna da poco) e mani fini da illustratore o da sarto. L'illustratore è un mestiere che fa volentieri. Molti suoi libri includono «disegni dell'autore». E Harper Magazine ai suoi disegni dedica una rubrica. Quanto al sarto, lo distingue pur sempre l'ossessione dei vestiti tagliati bene. Per Tom Wolfe è l'esagerazione che conta. Ma l'esagerazione deve colpire con delicata fermezza nel punto in cui si vede la minima incrinatura. Cosi il giovane e gentile Tom Wolfe, a quel tempo coccolato da tutti, ha assalito alle spalle Fetida e Léonard Bernstein, un giorno del 1969, quando la celebre coppia ha avuto l'idea di invitare a un cocktail certe «pantere nere» nella bella casa piena di argenti messicani, sulla Park Avenue. Ed è nato il famoso pezzo sui «radicai chic». Cosi ha proditoriamente assalito il mondo dell'arte, col suo librettino allegramente intitolato II mondo dipinto, che ha fatto saltare in aria mezza Madison Avenue, tra l'orrore e la rabbia di pittori e crìtici, proprietari di gallerie e collezionisti famosi. Tom Wolfe si muove con leggerezza e senza rimorsi fra morti e feriti. Sta preparando un suo colpo: il libro sugli astronauti. L'argomento, per Tom Wolfe. non è mai una persona o un fatto. E' sempre «cultura». Il inondo non è co¬ me lo vede o lo sente o lo sperimenta o lo inve. Esiste solo Il mondo dipinto, il mondo descritto, il mondo inventato dagli architetti, quello realizzato dai designers. Insomma gli interessa narrare quello che gli uomini pensano e inventano, non quello che gli uomini fanno. L'ossessione di Tom Wolfe è questa. Pochissima gente «fa» la cultura. La cultura, lui dice, «non è né un bene né un male, un mestiere superiore o inferiore. Sciaguratamente, a causa dei rapidi sistemi di comunicazione, diventa un modello, acquista forza di legge. E funziona come una dittatura». «A confronto con l'intolleranza dei critici d'arte, i governanti della Cambogia (non so bene se quelli di prima o quelli di adesso) sono dei vecchi liberali». Wolfe vede nell'attività culturale un mondo di censure e di Gulag. «Se non apprezzi la minimal art sei mandato fuori dai confini del consorzio dei col-, ti». «Andy Warhol. Tom Wolfe fa notare con enfasi, è l'uomo che ha capito tutto. Perché lo si vede in tutte le fotografie e in tutte le case come protagonista di tutte le feste? Forse perché è popolare? E' il nuovo Alain Delon più Gerard Philipe del rinascimento newyokese? Un risorto Cocteau? Niente affatto. Warhol manda una fattura (dicono cinquecento dollari) per ogni invito e per ogni festa. Le signore di Manhattan pagano volentieri perché sanno che Warhol negli affari è uno serio, verrà certamente e si può parlarne in giro in anticipo (serve anche per i fotografi). Inoltre non ti senti obbligato. Lo esibisci, ma non devi farne un amico. Del resto Warhol non si muove, non sorride, non parla, forse non respira. Dunque sarebbe poco utile una frequentazione privata. Ma esibirlo in pubblico, assolutamente da consigliare. naturalmente può darsi che la storia sia messa in giro da quei pochi che non hanno il telefono di Warhol e non riescono mai a invitarlo». Gli astronauti adesso appassionano Wolfe perché, lui dice, nella loro infinita banalità sono veramente «diversi». «E perché sono i soli esseri umani ad avere visto il mondo da fuori. Ma sono cosi semplici che non sapranno mai raccontarlo. E' un mistero affascinante, un desiderio morboso che mi spinge a girare intorno alle loro facce chiuse, ottuse, ben disegnate di tecnici che sfruttano tenacemente, fino in fondo, il loro quoziente intellettuale di dodicenni. E' un fascino che non finirà mai. Esiste Dio? E se esiste sì può immaginare qualcuno più adatto a discuterne degli astronauti, che sono inclini ad ammettere di "averlo visto, lassù"?». «Infine, continua Wolfe, la loro, diciamo così, cultura,' può essere una stupenda visione del mondo futuro. Prima dominante: i bottoni. Ogni bottone può provocare esplosione del reattore, partenza, allunaggio, abbandono del razzo vettore, entrata, uscita, abbandono, rottura dell'orbita. Seconda dominante: i colori. Il rosso vorrà dire pericolo, il giallo penuria, il verde macchina avanti i a l o e à a i o i à a e e , o e e tutta (dunque speranza), il blu cantare subito l'inno nazionale perché siete collegati in ripresa diretta. Terza dominante: la forma dello schermo televisivo. E' una incorniciatura perenne e definitiva di tutto ciò che è reale. Per due ragioni. Gli astronauti vedono le meraviglie del creato su un monitor. E noi vediamo su un televisore, cioè su un altro monitor, le meraviglie degli astronauti. Infine anche la parte "visore" del loro elmetto, almeno allo stato del disegno attuale, è a forma di monitor. Tom Wolfe incalza: «Vieni, | avvicinati, torna, sussurra il televisore-astronauta. Io ti do tutto il passato (caldo, sicuro, a colori) e tutto il futuro (avventura d'ignoto) eroe naturale: lo sceriffo dello spazio. Sfortunatamente i mezzi di comunicazione non hanno solo immagine. Hanno anche parola. Parlano i politici, nel loro gergo impossibile. Parlano le celebrità, contribuendo per fortuna alla distruzione del proprio mito. Parlano persone a cui nessuno ha mai detto che non è il caso. E parlano, ahimè, gli astronauti. Ma perché non trasformare l'orrore di sentire uno che dice "roger" ogni volta che vuol far sapere di avere capito una cosa, nell'avventura di esplorare il vero ignoto? Non la Luna, ma la "cultura" degli astronauti». A questo punto, come nei migliori romanzi d'appendice, facciamo un passo indietro. Esploriamo il concetto di cultura secondo Tom Wolfe a partire dalle opere precedenti. Possiamo seguire la lunga linea di affermazioni tanto limpide quanto offensive che gli hanno procurato odio sincero, molto successo e-una gradevole solitudine. Tom Wolfe ha appena sposato Sheila, la sua compagna per dieci anni, e ha appena comprato la casa in cui abita, compresi gli appartamenti di sopra e di sotto. «Vado regolarmente a riscuotere l'affitto ogni mese come nelle storie di Balzac. Pum punì, chi è. il padrone di casa, di già? Eh si, è il 29. Ci sarebbe anche un aumento per le riparazioni. Pagano, odiano, e uno è sicuro di resistere e di avere un suo ruolo nella vita». La sua idea fissa Tom Wolfe la esprime con queste parole: «Il pubblico non esiste. La gente, quando si tratta di comportamento culturale, esegue alla lettera, come coloro che vivono nei campi di concentramento e si aggrappano alla estrema speranza che il comandante sia buono». Quanti sono i «culturati» (sua espressione) nel mondo? E dove sono? «Vediamo. Circa settecentocinquanta a Roma, cinquecento a Milano...», esita per sentire se la cifra va bene. Dice di averla dedotta dai vernissage delle gallerie e dai dibattiti sul tipo del Club Turati. A Parigi ne colloca sema esitazione millesettecentocinquanta. milleduecentocinquanta a Londra, duemila a Berlino. Monaco e Dusseldorf, tremila a New York. E un migliaio sparsi in poche altre località «sconosciute». «Ce ne saranno uno o due a Tokyo?» si domanda perplesso. Dunque, lui dice, la cultura è una strana cosa che esi¬ ste e si espande in non più di una decina di centri, anzi quartieri, anzi appartamenti, sparsi in piccole aree del mondo: «Sommando tutto abbiamo, nel villaggio della cultura, circa 10.000 abitanti. Questi 10.000, mi dispiace per Breznev, governano il mondo. Che cosa tieni sul comodino? Lo decidono loro. Che cosa appendi al muro? C'è già scritto nel loro decreto. Cambia il decreto? Sbrigati e cambia il tuo muro e il tuo comodino». Questo spiega, secondo Tom Wolfe, fenomeni di fronte ai quali sociologia, psicologia e persino le scienze politi¬ che sono mute. «Possibile che tutti gli intellettuali francesi e italiani siano comunisti?, Possibile che nessun intellettuale americano lo sia? Vedete, nel 1930-40 in America tutti erano di sinistra. E a New York il povero Barnett Newman. pittore celebre, in seguito, ma allora si ostinava ad essere astratto mentre tutti erano occupati a dipìngere foschi ritratti dì minatori, ad alta voce piangeva: sono leninisti, marxisti, troskisti, dogmatici, mi ammazzo». La Cia, spiega Tom Wolfe, ha commesso errori terribili. Ha moltiplicato Sartre e Moravia per il coefficiente di incremento della popolazione attiva e ha predetto l'avvento del governo delle sinistre in Europa a partire dal 1950. «Tutta colpa dei letterati». «C'è un rapporto fra terroristi e concettuali, fra gli artisti minimalisti e il desiderio di uccidere le persone e non solo le cose?», si domanda Tom Wolfe. Di nuovo si ferma. Si rende conto che alcuni argomenti, per la sua galoppante polemica sulle mode, non vanno bene. Ma insiste sulla teoria dei «dieci manifesti che sconvolsero il mondo», dai cubisti ai giorni nostri. «Noi, conferma e conclude, non viviamo la vita. Viviamo la descrizione della vita nei libri e nei testi di critica. Ad essi siamo grati e ubbidienti come i perseguitati che sperano in qualche piccola disattenzione di guardiani implacabili». Si può domandare a Tom \Wolfe se lui pensa che la grande ondata di passioni religiose che sembra stia sconvolgendo a Oriente e Occidente, sarà il corrosivo fatate della dittatura dei «culturati», la fine del villaggio dei diecimila? Non si può e non perché Tom Wolfe non sia attento agli eventi del giorno. Ma perché è occupato a pensare la vita chiusa in un libro. Lo fa scrivendo il suo libro, e il cerchio della conversazione (e della descrizione del mondo) si chiude. Roger. Furio Colombo i tl E' itttt (dunque speranza) il ste e si espande in non più di