Applausi e zittii per l'opera di Rossini a Milano di Massimo Mila
Applausi e zittii per l'opera di Rossini a Milano Applausi e zittii per l'opera di Rossini a Milano Burrascoso «Mose» alla Scala È l'unico allestimento nuovo della stagione per il teatro, direttore Lopez Cobos' DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE MILANO — Unico allestimento nuovo della presente stagione alla Scala è il Mose di Rossini, opera che nel massimo teatro milanese non gode di eccessiva simpatia: undici cicli di rappresentazioni in poco meno d'un secolo e mezzo. In verità, quest'opera che esercitò un'influenza incalcolabile sul melodramma italiano dell'Ottocento, non è di molto piacevole ascolto. Nemmeno l'enorme ricchezza di musica scaricata dal genio di Rossini sul nebuloso libretto del Tottola. rifatto in francese con l'aggiunta di un atto da Balocchi e Jouy, e ritradotto in italiano da Calisto Bassi/ devoto veneratore di Beethoven a Vienna, non riesce ad occultare del tutto un dato di fatto di cui Rossini non aveva nessuna colpa, e cioè che il genere opera seria, qual era tramandato dal Settecento, era giunto proprio al limite estremo dell'usura. O rinnovarsi o morire. E a rinnovarlo pensavano già in quegli anni Cherubini e soprattutto Spontini, Weber e lo stesso Rossini che nel Guglielmo Teli darà una spinta decisiva. Ma il peso di tanti recitativi convenzionali, il tronfio apparato della retorica sacerdotale, e l'incongruenza di certe marcette dinoccolate (che Verdi erediterà nel Nabucco) pongono sull'opera un'ipoteca, cui Rossini sfuggiva più felicemente in quell'altro tipo d'opera seria non classicheggiante, ma quasi preromantica, che era venuto svolgendo nell'Otello, nella Elisabetta regina d'Inghilterra, nella Donna del lago. Di questa esecuzione la Scala ha affidato la parte musicale al maestro Jesus Lopez Cobos. e la parte visiva a Luciano Damiani, che cumula le funzioni di scenografo, costumista e. per la prima volta regista. Lopez Cobos ha fornito dell'opera una versione integrale, senza tagli, ad eccezione di qualche ritornello. Posto perciò nella necessità di limitare la durata enorme dello spettacolo, ha riunito il primo e il secondo dei quattro atti, senza alcuna interruzione. Soluzione poco avvisata, perché fa credere che l'azione prosegua immmediatamente sull'eclisse di sole provocata da Mose alla fine del prim'atto. Invece — la musica meravigliosa lo dice a chiare note — sono passati giorni e giorni di tenebra ininterrotta, prostrando gli Egizi nello sconforto e piegando infine la resistenza del Faraone. Per altro il direttore ha concertato non più che correttamente l'orchestra e il magnifico coro istruito da Romano Gandolfi (coro che in quest'opera ha parte predominante), immettendovi le forze d'una compagnia di canto un po' disuguale e non ancora perfettamente amalgamata. Solenne ma superficiale protagonista il basso Nesterenko. nuovo idolo dei milanesi, e antagonista non minore, nella parte baritonale del Faraone, il basso di colore Simon Estes. Terzo basso Luigi Roni (il sacerdote Osiride) e quarto Giovanni Antonini (Voce misteriosa nel primo atto). Dei due tenori, quello meno importante. Giampaolo Corradi nella parte di Elisero, fratello di Mose, è parso più a suo agio del tenore principale Vincenzo Bello, ma ha avuto qualche incertezza nei concertati. Scegliere un tenore drammatico, anziché leggero, per la parte belcantistica di Aménofi. non s'è provato un esperimento felice. Il pubblico del loggione, che alla Scala continua ad essere turbolento e maleducato, ha accolto con risatine ironiche, certamente spiritose, ma irriguardose verso un artista che dopo tutto stava facendo del suo meglio in una parte non adatta/ la sua entrata nel concertato del terz'atto sulle parole: «Mi manca la voce, mi sento morire ». Note più liete nel settore femminile. Incantevole e. semplicemente, perfetta Julia Hamari nella parte, purtroppo poco importante, di Sinalde. moglie del Faraone. Lei e la generosa Parazzini hanno strappato i due soli applausi a scena aperta. Forse anche la Parazzini è soprano più drammatico e verdiano che' rossiniano; ma è anche vero che lo strazio di Analde. costretta nell'ultimo atto a scegliere tra l'amore e la fedeltà verso il proprio popolo, è uno di quei momenti dove Rossini supera se stesso e pianta in asso i ferri vecchi del melodramma settecentesco per divinare espressioni drammatiche di stampo già nettamente verdiano. Da ricordare, infine. Piero De Palma nella parte di Aufide. che viene ad annunciare le piaghe d'Egitto: situazione, che Verdi esalterà poi oltre ogni dire nel Messaggero dell'Aida. La regia di Luciano Damiani è quella tipica d'uno scenografo: ossia, inserisce i cantanti — coro e personaggi — entro uno schema figurativo, rinunciando ad ogni pretesa di recitazione. Lo schema è quello di un ondulato paesaggio desertico, dune color sabbia tra le quali vengono dì volta in volta a collocarsi troni, perfino templi (vere cattedrali nel deserto) e alla fine le onde del Mar Rosso, che nel finale si dividono con bell'effetto, facilitato anche dalla compiacente oscurità in cui quasi tutto lo spettacolo è tenuto. Ciò si deve forse alla strana convinzione del regista che il Mose sia da intendere come «opera dei sacrifici» e che in essa il protagonista richieda il «sacrificio dei primogeniti d'Egitto», quando invece «consacra» — e non «sacrifica» — i primogeniti degli Ebrei. Vengono con ciò alquanto «sacrificate» (si scusi il bisticcio) quelle schiarite d'arcobaleno che tanto splendono nella musica rossiniana. La coreografia di Geoffrey Cauley se ne va per conto suo. rinunciando a secondare la brutta musica delle danze, inopportunamente ripristinata. Esito un po' burrascoso, con applausi e zittii, forse miranti più in alto che agli artisti in palcoscenico. Massimo Mila
Luoghi citati: Egitto, Inghilterra, Milano, Vienna
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