L'ayatollah del sentimento di Giovanni Arpino

L'ayatollah del sentimento IERI SERA ALLA TV MEROLA, IL RE DELLA SCENEGGIATA L'ayatollah del sentimento E' sempre lui: massiccio, il ventre tappezzato da panni d'un'eleganza vistosa, le guance che si dilatano, rivoli di sudore che gli ruscellano giù dalle tempie dopo infiniti «bis» dentro i quaranta gradi dei riflettori. E' andato a cacciarsi anche in quella astrusa tana che Costanzo chiama «Acquario». Ha rivisto in televisione, domenica 11 marzo, divisa in due puntate secondo i canoni classici del feuilleton, la sua più famosa «sceneggiata», L'emigrante ovvero Lacreme napuletane, storia rocambolesca di abbracci, tradimenti, rovina, mamme, riscatto, fuga per evitare il carcere, catarsi finale. Il cinema non ha soldi per progettare alcunché, Pellini si piega ad esigenze televisive, Eduardo de Filippo è sempre più filiforme ed «elitario» (Napoli lo ossequia però non lo mantiene). Ma Mario Merola prosegue, «caccia denari», è multimilionario, balza, malgrado la mole, da una cinepresa a un palcoscenico, dai teatri di Brooklyn alle metropoli del Nord Italia, dove i meridionali si svenano per occupare una poltrona, stordirsi, piangere, ridere, ritrovare gli antichi prototipi di una esistenza che è inutile — o fors'anche idiota —definire cartolinesca. Merola è Merola e solo Merola come Claudio Villa fu solo Claudio Villa, come James Dean fu Dean. Merola si è inventato da sé, imponendosi, distribuendo lezioni di «sentimento», credendo in questa gerarchia del «sentimento». Gli arricciamenti dei nasi intellettuali non lo toccano. Ma del resto, che cosa valgono certe snobberie culturali? Negli Anni Sessanta una compagnia di lombardi, i «Legnanesi-, raccolse messi di complimenti arbasineggianti: vestiti da donna, i -Legnanesi- mitizzavano, anche loro, il cortile con ringhiera, la pelliccetta di gatto tarlato, il sogno motoristico, la sbronza all'osteria. Il padre era sempre ciucco, la figlia un po' battona un po' operaia un po' timorosa di non trovar ma- rito, e la madre cercava, in un italiano dalle cadenze impossibili, una dignità piccolo-borghese fedele agli schemi. Perché no a Merola, allora? Con e malgrado «Acquario», Mario Merola «si recita» alla perfezione. Che sia straricco e che creda in quel che fa. non ci piove. Che parli di una Napoli fuori del mondo, è altrettanto vero. Ma ha fiutato, scavato e imposto un «genere» apparen-. temente defunto. Nel mondo degli emigranti, da Torino a Stoccarda alle Americhe, Merola è, sarà. Monumentalizzato e «bello» a dispetto di ogni chilo di ciccia in più. Canta un romanzo d'appendice che fa strillare gli spettatori, i quali prendono le parti della vecchietta al freddo o del compare snaturato. Coltelli, contrabbando, strepiti familiari, riconoscimenti, fughe, riparazioni, codici d'onore tengono banco: con qualche tratto di furbizia ammodernata (la verginità non è più un feticcio, la comicità può sbrigliarsi con doppisensi goliardici). La «sceneggiata» di Merola è un'isola. Separa la Napoli d'una volta dal mondo d'oggi. Crea una barriera tra i suoi fondali e la vita della quotidianità. Non tocca mai certi argomenti, come la disoccupazione o il vibrione o la virosi respiratoria. Queste sono tragedie, alle quali la «napoletanici ad» meroliana oppone trincee di minuscole avventure, anche astute. Non è l'elogio dello spaghetto, come dicono i facili detrattori, è una «bellezza di cuore» e di «bella figura» che cerca improbabili rivincite, o almeno una sopravvivenza. Mario Merola canta quasi avesse due fisarmoniche al posto dei polmoni. Si agita pochissimo. Il guappo deve aver gesto ieratico. A modo suo è un piccolo ayatollah del comportamento meri¬ dionale. Mano sul cuore, si, ma tronco eretto e immobile, piedi ben discosti, sguardo profondo che deve significar tutto, sapienza e comprensione, dist ,cco e filosofia, senso del tempo e fragilità del destino umano. Cosi Mario Merola, figlio di dolori, punisce l'ingrato, il traditore, consola la mamma, risolve un garbuglio anagrafico e talora criminale. E' la giustizia, dal volto riconoscibile. E se deve scappare da Napoli, non è per espiare una colpa che fuggirà nel mondo. Quel mondo, al di là della «napoletanidad». non esiste: Torino o Brooklyn o Stoccarda sono solo inferni di passaggio. Riconosce lui stesso: non sono Pirandello. E' il massimo della confidenza. Ebbene, detto tra noi: Pirandello e forse Gramsci, come critico teatrale, non lo avrebbero snobbato affatto. Giovanni Arpino Mario Merola ne "L'emigrante", la sua più famosa "sceneggiata" (Foto Cesare Bosio)

Luoghi citati: Americhe, Napoli, Nord Italia, Stoccarda, Torino