Dinamica della pace di Arrigo Levi

Dinamica della pace Dinamica della pace L'azzardo di Carter è riuscito e Carter non è certo il solo a rallegrarsene. Il fallimento della missione mediorientale del Presidente avrebbe scatenato un'altra ondata di lamentazioni (o di esultanze) sul «declino dell'America». Ma la credibilità delle superpotenze è indispensabile per gli equilibri globali; il successo di Carter ristabilisce una immagine che sembrava compromessa. Carter stesso è ora visto per quello che è: un uomo onesto, qualità rara in politica e che richiede tempo per essere riconosciuta come pregio, ma non per ciò uno sprovveduto; un uomo di ideali, ma anche un efficace e audace negoziatore. Carter continua a dirci che la potenza americana non è affatto illimitata, che l'America deve misurare i suoi impegni, e ha ragione. Ma non prendiamolo troppo alla lettera: gli strumenti di questa potenza — economici, militari, istituzionali — sono ancora poderosi, anzi ineguagliati. Il consenso dell'America (opinione pubblica e Congresso) attorno a un Presidente che si impegni nella difesa di interessi essenziali è la base della potenza americana. La presidenza «imperiale» di Nixon aveva gravemente compromesso quel consenso e lasciato perciò l'America più debole. La ricostruzione del consenso non è opera di un giorno, e Carter apparve talvolta fragile e isolato. Ma ha superato una difficile crisi personale e politica e questo l'aiuterà ad affrontare con autorità altre prove: dalla continuazione degli sforzi per la pace nel Medio Oriente, al negoziato Salt con l'Urss. ' Nell'uno come nell'altro caso, la tesi di Carter è che un mancato accordo sarebbe molto peggio di un accordo imperfetto. Nel caso dei Salt, scatenerebbe una corsa illimitata agli armamenti e forse una nuova guerra fredda. Nel caso del Medio Oriente, la rottura tra Sadat e Begin avrebbe inasprito l'intransigenza israeliana e scatenato gli estremisti arabi che puntano ancora a una guerra Ma, come il futuro accordo Salt, anche la pace tra Egitto e Israele è soltanto una tappa, di un difficile processo negoziale. Questo è un trattato per molti aspetti anomalo. La sua esecuzione non è immediata e contestuale alla firma, ma richiederà per compiersi ben tre anni. Israele cederà mezzo Sinai entro il 1979; ma cederà l'altra metà, che è quella che conta, solo dopo un triennio. Se intanto non accadranno le altre cose previste dal trattato, se l'Egitto non manterrà un rapporto di pace con Israele, o se Israele non concederà l'autonomia (ancora tutta da definire e negoziare) alla Palestina araba, il trattato di pace egiziano-israeliano andrà a monte. E' nella natura stessa di questo patto come concepito a Camp David (un accordo a due nella cornice di un futuro accordo generale di pace), che esso sia soltanto la prima fase di un più lungo processo. Anche se il programma triennale si compie e Israele cede tutto il Sinai, che cosa può garantirgli che, dopo, l'Egitto, non denunci questa pace apparentemente «separata»? Nessuno può dare questa garanzia, nemmeno l'America. * * I sei mesi difficili trascorsi da Camp David hanno messo in luce il carattere provvisorio e parziale della pace bilaterale. Se Israele vuole che la cessione del Sinai risulti giustificata, deve anche volere che il negoziato vada avanti. Noi non sappiamo ancora come siano stati definiti quei passaggi del trattato che lo legano alla futura concessione dell'autonomia alla Palestina araba e sospettiamo che la definizione debba essere imprecìsa. Ma checché dica il trattato, esso non arriverà a compimento, o peggio ancora avrà una realizzazione soltanto illusoria, se non metterà in moto una «dinamica della pace» che coinvolga altri: soprattutto i palestinesi. tdntandrnsfqeca L'utilità per Israele del trattato è che esso, per la drammaticità stessa del riconoscimento di Israele da parte della maggiore potenza araba, possa rendere insostenibile quel rifiuto di Israele da parte del mondo arabo che rendeva impossibile ogni piano di pace. Sarebbe un disastro se, quale risultato della firma, si ottenesse soltanto quel doppio rifiuto, di Israele e dell'Egitto, che oggi si profila. La responsabilità perché ciò non accada ricade anzitutto sui governi moderati arabi e su Araiat. Questi hanno ragione di pretendere altre trattative; ma non dovrebbero dare l'impressione, chp invece oggi danno, di voler preparare nuove guerre. Dovrebbero invece ammettere che la precondizione necessaria per la pace, e per la stessa nascita futura di una Palestina araba, è il riconoscimento dello Stato d'Israele, come l'ha riconosciuto, con uno storico gesto lungimirante, il presidente Sadat. Responsabilità altrettanto forti ricadono su Israele, che deve chiarire definitivamente (se vuole che la dinamica della pace vada avanti, come è suo interesse), di non voler mantenere l'occupazione della Palestina araba, ma soltanto ottenere garanzie di sicurezza militare, indispensabili dopo trent'anni di guerra. Sapra inoltre Israele riconoscere che una vera trattativa con i palestinesi richiede che questi possano scegliere i loro rappresentanti, fino all'Olp, e purché l'Olp riconosca appunto Israele e non predichi e pratichi la guerra? Con la firma del trattato — e sarà comunque una giornata di speranza per i popoli mediorientali, anche se tra gli arabi oggi sono in tanti a negarlo — le fatiche di Begin e Sadat, e quelle di Carter, non saranno dunque finite. Saranno appena incominciate. Arrigo Levi

Persone citate: Begin, Nixon, Sadat