I fantasmi dei violini raccontano di Angelo Dragone

I fantasmi dei violini raccontano IN MOSTRA DA OGGI A TORINO CENTO QUADRI DI ESO PELUZZI I fantasmi dei violini raccontano L'artista ottantacinquenne ora vede gli strumenti come pure strutture formali, tra simbolismo e allegoria - Ma conserva la naturale propensione al favoloso -1 paesaggi e le nature morte - L'amicizia con Arturo Martini TORINO — Negli ambienti di Palazzo Chiablese, trasformati per l'occasione in un candido labirinto espositivo, questa sera verrà inaugurata una mostra di Eso Peluzzi. patrocinata insieme dalla Regione Piemonte e dal Comune di Monchiero: doveroso omaggio anzitutto agli ottantacinque anni compiuti dal pittore il 6 gennaio scorso. La rassegna comprende ritratti, paesaggi e nature morte clie ai loro inizi consentono di notare una certa parentela con la pittura torinese a cavallo della prima guerra mondiale, anche se Peluzzi ha continuato poi a coltivare il proprio mondo poetico tra Langae Monferrato, sin verso il mare, diviso tra Cairo Montenotte che gli aveva dato i natali, il Santuario di Savona dove approdò nel '19 per ritrovar se stesso dopo aver assistito a tanto assurdo spreco» di sangue, e Monchiero, altra sua patria di adozione: ovunque serbandosi però sensibile ai richiami del capoluogo piemontese dove, giovanissimo, fra il 1911 e il '15, aveva frequentato l'Albertina, allievo, con Cesare Maggi e Felice Carena, di Paolo Gaidano e Giacomo Grosso. E' il caso di avvertire subito quanto sia facile con Peluzzi lasciarsi tentar dal personaggio che più di ogni altro sembra fatto apposta per alimentare ogni divagazione letteraria; quasi che davvero, nonostante la chiara linearità dell'operoso impegno, proprio la sua vita sia tutta da raccontare, un aneddoto via l'altro. Ma di fronte al centinaio di opere riunite dalla mostra — una settantina di dipinti e trentun disegni — almeno per una volta si potranno lasciare sullo sfondo i giorni remoti' della fanciullezza vissuta al Cairo e il fascino dei violini del padre, liutaio abilissimo, oltreché pittore e scultore: e cosi i viaggi che al mattino presto lo portavano a Torino per consentirgli d'essere in tempo alle lezioni dell'Albertina, Si vedane, dunque, i dipinti recenti e qu?lli remoti, accanto ai grandi pastelli e ai carboncini in cui si manifestano spesso monu nti di fruttuose intuizioni e ci ricerche Utilmente la mostra li pone a vol¬ te quasi a confronto nell'identità del tema per far meglio intendere il valore del segno e il senso diverso che assume l'elaborazione cromatica con esiti talora imprevisti. Proprio come Peluzzi può sorprendere chi pensasse di poterlo semplicemente collocare — per area culturale — nell'ambiente pittorico subalpino. Non è che sia sbagliato. E tanto meno se lo si riferisce al clima torinese anteriore all'arrivo di Casorati. Nei dipinti più vecchi circola infatti quell'aura caratterizzata da tipiche ascendenze tra espressionismo e postimpressionismo che avevano avuto in Carena (già emigrato a Roma, vincitore d'un «pensionato») e in Bosia, gli interpreti maggiormente impegnati. Ma. non bisogna dimenticare quel che fin dal 1924 di Peluzzi aveva scritto Raffaello Giolli nel presentare la sua seconda «personale» a Milano presso «Bottega di poesia», e cioè: che «la sua pittura non s'inquadra negli aggruppamenti consueti», essendo egli «un pittore di quelli che vengono all'arte con una natura semplice... per un naturale istinto dell'anima, per una incontrollabile esigenza». L'artista aveva Infatti sviluppato un suo mondo interiore, fedele alle immagini d'una realtà domestica: i ritratti del padre e della madre (ma anche gli altri, raffigurano tutti persone che in qualche modo per lui hanno contato); le nature morte spesso molto belle proprio per limpidezza di dettato pittorico, come gli interni caserecci: infine la messe dei paesaggi, soprattutto quelli invernali, letteralmente di favola. Nel Canneto del 1921. tuttavia, la folta ramaglia rorida di luce si direbbe rinnovi una visione ch'era già stata prima di Pellizza, poi del saluzzese Olivero. Né mancano altre opere che potrebbero definirsi in tangenza col rigore plastico di Casorati (come Polenta e lat¬ te del '26) mentre altre rivelano tempestive consonanze con la coeva pittura dei «Sei» e più avanti col naturalismo novecentesco d'un Tosi. Prima di allora, però, v'erano già state (e la mostra dedica loro una saletta appartata) le immagini nate tra le silenti, malinconiche ombre dell'ospizio dei vecchi di Santuario, colme di quella verità interiore cui Peluzzi non avrebbe mai più rinunciato, anche a costo di starsene fuori d'ogni schema di gusto o di tendenza; pago d'essere e di sentirsi soprattutto in armonia con se stesso, consapevole della propria perizia di fondo, della sobria, trepida raffinatezza cui approda nella sua naturale propensione al racconto favoloso. Peluzzi. invero, è un narratore nato. Lo dimostra sia quando con suggestiva aneddotica rievoca la figura di Arturo Martini, cui fin dal 1920 fu legato da una profonda amicizia, sia che s'esprima «per linee e colori», come av¬ viene nei. neppur tanto, fantasticati paesaggi di Montechiaro d'Acqui. Anch'essi inizialmente fatti d'una materia corposa, tutta plastici risalti, ma più tardi come filtrata attraverso una nuova saggezza. Ed è. questa, una evoluzione che ha toccato l'intero repertorio: dai paesaggi ai fantasmi dei violini che il figlio del liutaio vede come pure strutture formali, tra simbolo e allegoria. Le atmosfere dei suoi dipinti si tingono ora di liquide luci nelle quali Peluzzi continua a calare le sue nature in silenzio. E sono ogni volta sinfonie di grigi cenere e di calde ocre, di toni rosati e perlacei o di bruno-violacei sui quali più liberi cantano talora i colori dei fiori o di qualche frutto di stagione: pere. mele, uva. noci, o il rustico aglio e le cipolle, come la polenta e il bricco di latte di tanti anni fa: non più che brani di vita quotidiana, ma per Peluzzi pretesto, sempre, di poesia. Angelo Dragone