Bandiere rosse assediano Khomeini di Igor Man

Bandiere rosse assediano Khomeini L'AYATOLLAH SAPRÀ (VORRÀ) CONCILIARE MARX E MAOMETTO? Bandiere rosse assediano Khomeini Dopo la folgorante vittoria di una rivoluzione cui hanno partecipato uomini d'ogni tendenza, in Iran si profila "una netta frattura fra destra e sinistra - Operai e contadini reclamano più partecipazione; esplodono contrasti nello stesso movimento religioso - Se l'Imam lascerà la via della tolleranza, il Paese conoscerà altri giorni terribili Iran, capitolo secondo. Dopo la folgorante vittoria, il potere dell'ayatollah segna il passo. Non c'è anarchia, ma un diffuso malessere regna un po' in tutto il Paese. E sta avvenendo, invero in anticipo, un fenomeno paventato dai patrioti, previste dagli osservatori: la polarizzazione, destra, sinistra. Codesto fenomeno è comune a tutte le rivoluzioni. Ma quella iraniana è una rivoluzione atipica, non fosse altro perché combattuta nel nome di Allah. Una rivoluzione islamica, appunto, anzi sciita, che ha raccolto attorno alla bandiera verde del profeta All (vittima dei Sunniti) uomini di tutte le tendenze: dai maoisti ai liberali intesi in senso euro-occidentale. Marce, scioperi Nei giorni duri, sanguinosi della lunga lotta, tutti militavano nel «partito di Allah» combattendo inermi contro i frankenstein dell'armata imperiale, della Savak, popolani e borghesi si son fatti massacrare invocando Iddio e Khomeini e durante la storica «sommossa delle 48 ore» han preso le armi, in un clima da quattro giornate di Napoli, anche le donne. Ma la benda bianca dei martiri votati al sacrificio che cingeva la fronte degli scugnizzi iraniani, il nero chador che avvolgeva popolane e studentesse, erano solo une, divisa da combattimento. Ora che le armi si son taciute, ognuno si riconosce per quel che è, per quel che è stato. I militanti di sinistra, i laici e gli ortodossi seguaci di Khomeini in senso stretto, si dispongono secondo schieramenti abbastanza distinti. Ancora una volta nella storia, siamo di fronte al conflitto fra rivoluzionari e riformisti. Ma c'è di più: due anni di lotta contro il regime Palliavi e quattro mesi di sciopero a oltranza — marce popolari e scioperi sono state le armi decisive della rivoluzione khomeinista —, hanno fatto prender coscienza a larghi strati della popolazione come sia loro diritto pretendere una partecipazione diretta alla gestione del potere. Tutto ciò in un Paese, come l'Iran, dove i giovani costituiscono il 60 per cento della popolazione. Quando, lo scorso giovedì, i fedayn del popolo rinunciarono alla loro marcia di protesta per non sfidare le Ire di Khomeini che li aveva accusati di opportunismo e di bestemmiare l'Islam, qualcuno disse che l'ayatollah aveva vinto. Ma dopo il raduno di venerdì, alla città universitaria di Teheran, se non è possibile affermare che abbiano vinto le «sinistre» è lecito argomentare che un vasto fronte di opposizione si sia presentato all'imam mettendo le carte in tavola con fermezza, ancorché rispettosa. La frattura tra destra e sinistra non si manifesta soltanto con le preoccupazioni dei riformisti, come Bazargan, che vorrebbero, dopo il grande sprint rivoluzionario, procedere passo dopo passo alla rifondazione dello Stato, e con le impazienze dei prò-' gressisti che pretendono tribunali del popolo al posto di quelli segreti islamici, un esercito popolare, una gestione di base della produzione petrolifera ecc. Si manifesta, altresì, nei contrasti, ormai evidenti, esplosi in seno allo stesso movimento religioso. In aperta polemica con Khomeini, l'ayatollah Ezzedin Hosseini, di Mahabad, ha ribadito le rivendicazioni dei Kurdi, negando il loro preteso separatismo. «Tutte le guarnigioni militari ha detto, debbono essere poste sotto il controllo dei consigli rivoluzionari- (né più né meno quel che dicono i fedayn). E ha aggiunto come il Kurdistan, condannato all'arretratezza dalla politica razzista dello Scià, reclami la partecipazione al governo di operai e contadini -che han giocato un ruolo decisivo nella rivoluzione-. Un altro personaggio prestigioso, l'ayatollah Talleghani di Teheran, si è ritirato dal Consiglio della rivoluzione. Lo ha fatto adducendo i soliti motivi di salute, ma tutti sanno come Talleghani, studioso del marxismo, sostenesse, in contrasto con Bazargan, il diritto dei lavoratori a eleggere i propri dirigenti. Talleghani, infine, era per una più vasta partecipazione dei laici e dei progressisti alla gestione degli affari dello Stato. (Sembra, in ultimo, che lo abbia «sconcertato» la decisione con cui il governo ha voluto mantenere fuori legge il tudeh, il p.c. iraniano, riaffermando cosi la validità del «codice Rocco» dell'Iran). Lo stesso movimento dei mujahidin, il braccio armato della rivoluzione islamica, si è schierato in parte coi fedayn. I mujahidin non nascondono il loro malcontento, temono anch'essi che la borghesia «rubi la rivoluzione al popolo-, accusano il consiglio degli ulema di Teheran (dominato da moderati e conservatori) di influenzare ne¬ gativamente Khomeini. E si mostrano apertamente diffi-, denti verso il neonato partito repubblicano islamico, benché esso ostenti l'etichetta di -organizzazione religiosa progressista-. Nell'esercito Un paragrafo a parte va dedicato all'esercito. Sotto la pressione popolare, il governo provvisorio continua ad arrestar generali, ne ha epurati finora centoventitré, eppure sembra che non basti: c'è malcontento nei ranghi degli ufficiali subalterni, moltissimi sono i soldati che si rifiutano di rientrare in caserma nonostante la minaccia di essere giudicati come disertori. Causa del malcontento: la nomina del generale Gharani a capo di stato maggiore. Gharani viene accusato di -anticomunismo viscerale-, d'esser legato agli Stati Uniti, d'aver auspicato il ritorno dei «consiglieri» americani. Prima conseguenza del malcontento dei soldati: le dimissioni del colonnello Nasrullah Tavakoli, coordinatore delle attività militari in seno al «comitato» di Khomeini, e principale consigliere del generale Gharani. Paradossalmente è scivolato su una buccia di banana «americana»: un membro del comitato Usa per la libertà artistica e intellettuale in Iran, Ralph Schoenman, ha esibito una registrazione d'un suo colloquio col colonnello deciso a condurre una guerra psicologica per fare accettare al popolo iraniano la liquidazione della sinistra. -Ci vorrà un po'di tempo, ma poi li fucileremo tutti-. Per tornare ai dissensi. meglio alla dicotomia del potere citeremo un caso emblematico: Bazargan dichiara che ci vorranno almeno due mesi per effettuare il referendum costituzionale, un portavoce di Khomeini replica che il referendum si terrà ' il 30 di marzo e che gli elettori dovranno rispondere a una sola domanda: « Volete la Repubblica islamica?-. Si dirà che tutto ciò era inevitabile, che le cose sono andate troppo in fretta e che ora si pagano le conseguenze di una vittoria rapida, bruciante. Pende, tuttavia, un interrogativo inquietante: che farà Khomeini? E' stato scritto che se è vero che i marxisti hanno imparato molto dalla rivoluzione dell'imam, condotta in nome di Allah, è anche vero come i religiosi avranno molto da imparare dai marxisti quando esploderanno le contraddizioni in seno al «movimento», nel Paese. Le contraddizioni sono esplose prima di quanto non si pensasse e i religiosi ortodossi non sembrano disposti a ricevere lezioni da nessuno, tanto meno dai marxisti, definiti 'Opportunisti antislamici-. Certo Khomeini è un personaggio straordinario, il suo carisma è immenso, milioni e milioni di musulmani, sciiti o no. guardano a lui come a un nuovo profeta ma se l'imam anziché seguire la via della tolleranza e del rispetto dei diritti umani, come sinora ha fatto, decidesse, vantando 'l'infula del Dio-, di ridurre alla ragione gli «atei», l'Iran potrebbe conoscere giorni terribili. Non è finita, tutto deve ancora cominciare. (In ogni caso non sarà facile conciliare Marx e Maometto. Sempreché lo si voglia). Igor Man