Un vecchio sporcaccione

Un vecchio sporcaccione Charles Bukowski tra ribalderie e tenerezze Un vecchio sporcaccione Charles Bukowski: «Taccuino di un vecchio sporcaccione», ed. Guanda. pag. 155. lire 3500. Sempre esuberante l'import culturale dagli Stati Uniti: dopo lo squalo. John Travolta e Superman, arriva Charles Bukowski (da non confondere, per carità, con il Vladimir dissidente sovietico). Ma non si tratta della solita astuta operazione commerciale pianificata in ogni dettaglio, quanto di una sorla di acclamazione partita dall'Europa, dove francesi e italiani hanno sempre il prurito delle scoperte, specie se il nuovo genio in patria è del tutto misconosciuto. Di origine tedesca, sui sessanta, alto e butterato, un fisico da caratterista western, alle spalle un passato di fabbriche, panchine di parco, mestieri ingrati, donne malvage. a quarant'anni Bukowski dà un calcio all'impiego postale, e si mette a campare alla giornata. Scrive poesie e racconti per i fogli underground, li riunisce in volume per piccole case editrici alla macchia. Un po' orso e mugugnone. detesta Vestablishment letterario, trova mortalmente noiosi la maggior parte dei colleghi, riconosce come soli maestri Dostoevskij e Celine.. Amico di tutti i balordi e i reietti della California, è un Bogart che preferisce spendere in birra i soldi per l'impermeabile e il cappello floscio, un «duro» che le prende quasi sempre, e se abborda una donna, non sarà la fulgida Ingrid Bergman di Casablanca, ma una battona gualcita, con qualche residuo d'umanità. Bukowski sguazza nel sottomondo avariato di Los Angeles senza cadere nel drammone naturalistico o nell'intimismo piagnone, ma bada a rappresentare com'è quella crucia biologia di amebe degradate, trattandola con gli acidi di una allegria verbale proterva e corrosiva. C'è in questa scelta un duplice intento: il rifiuto polemico del prodotto ben confezionato, alla Updike o alla Vidal. e il gusto della provocazione, la voglia di mettere alla prova le' ipocrisie del lettore. Per lui il solo modo di svelare la violenza della metropoli e quello di' specchiarla in una pari violenza linguistica, dove le cose son chiamate con il loro nome. Aboliti eufemismi e maquillages stilistici, il problema di Bukowski è quello di farsi capire da una platea che condivide i suoi problemi: la solitudine che si caglia in ferocia, l'indifferenza, i soldi da raci-' molare per ['«erba» o per il whisky. Questo garantisce alla pagina l'immediatezza di una «presa diretta» in cui passano umori e furori, rantoli e sogghigni: e anche, ovviamente, la sua aria provvisoria di brogliaccio, di diario di un naufrago volontario. Nulla che autorizzi a gridare al miracolo. Nel panorama americano dei ribelli solitari. Bukowski vanta una cospicua serie di antenati, da Huck Finn a Miller e a Kerouac. Di suo. Bukowski ci mette una elementare comicità fisiologica, da teatro degli zanni, e una non superficiale capacità di scandalo. Ma di lui non si parla solo da oggi. Se Sugar annuncia per maggio il ro¬ manzo Factotum e i racconti di A sud di nessun nord, e Fel trincili altri «pezzi» estemporanei (Compagno di sbronze), sin dal '75 lo stesso Feltrinelli aveva pubblicato le gustose Storie di ordinaria follia, prò babilmente le cose migliori che questo «piccolo guru della negatività» abbia scritto sin qui. Ecco intanto, curato con passione da Carlo A. Corsi questo Taccuino, che prende titolo dalla rubrica settimanale che l'autore teneva su «open City» intorno al '68. Un teatrino in cui si riversano brandelli autobiografici, storie vere e inventate, corse dei cavalli, notti passate a tifare per giovani pugili eh? si pestavano sul serio, ciucche colossali, avventure tanto sgangherate da finir nel surreale: gran fritto misto alla californiana di ribalderie e tenerezze, di fame di vita e di lezzo di morte. Ernesto Ferrerò

Luoghi citati: California, Europa, Los Angeles, Stati Uniti