Fiamme dell'Iran a Gerusalemme

Fiamme dell'Iran a Gerusalemme Fiamme dell'Iran a Gerusalemme Il trionfo della rivoluzione in Iran rende più difficile, ma anche più urgente e indispensabile, la conclusione della pace tra Egitto e Israele. A otto giorni dalla ripresa delle trattative a Camp David tra Khalil, Dayan e Vance, e mentre si sviluppa la missione mediorientale del segretario della Difesa Brown, è ormai chiaro che il trattato egiziano-israeliano ha acquistato un significato che va molto al di là dello stesso grande problema della pace tra Israele e il mondo arabo. Il trattato diventa un passaggio obbligato verso la costruzione di un nuovo sistema politico-strategico in tutto il Medio Oriente, dal momento che il vecchio equilibrio sembra esser andato in pezzi, con la rivoluzione iraniana. Non è naturalmente escluso che il nuovo Iran (ma che cosa sarà?) possa rimanere un fattore di stabilità. L'avvio di buoni rapporti tra l'Occidente e l'Iran di Khomeini rimane anzi un obiettivo importante, al cui raggiungimento l'Europa, meno compromessa dell'America con lo Scià, può dare un contributo. Ma queste sono soltanto possibilità o speranze; intanto è certo che la rivoluzione in Iran annuncia gravi tensioni e pericoli per tutti i Paesi di questa regione, e può schiudere all'Unione Sovietica porte che erano chiuse. L'assoluta dipendenza economica dell'Occidente, o meglio dell'Europa, dal petrolio mediorientale, rende per noi indispensabile che si costruisca al più presto una nuova struttura di sicurezza, politica e strategica, attorno alla regione del petrolio. * ★ * Ma non sorgerà nessuna nuova struttura capace di garantire la stabilità del Medio Oriente, e con essa tanti valori per noi vitali, se non ci sarà prima la pace tra Egitto e Israele. Questo, le due parti lo sanno. Dan Patir, portavoce di Begin, dichiara che «i regimi moderati e responsabili debbono avvicinarsi, non allontanarsi-, e giudica «con moderato ottimismo» le possibilità di successo della nuova trattativa. Anche Dayan ha manifestato ieri precise speranze di progresso; anche se è probabile che un accordo richiederà, prima o poi, un altro vertice tra Carter, Sadat e Begin. Il fatto che il governo israeliano abbia evitato di accompagnare a Dayan (oggi "colomba") un ministro «falco», e che abbia rimandato il dibattito sull'autonomia dei territori occupati, che gli intransigenti israeliani volevano anticipare sperando che facesse fallire ogni accordo con l'Egitto, sembra voler dire che Begin punta ancora sull'intesa con Sadat. Anche la «mezza apertura» di Dayan all'Olp è di buon auspicio; ma la rivoluzione iraniana rende oggettivamente più difficili i compromessi, e anche le ambiguità, che sono indispensabili per poter realizzare un accordo sulle questioni che sono ancora aperte. Tra queste, le sole importanti sono la definizione di più o meno precisi collegamenti tra l'accordo a due e i futuri progressi verso l'autonomia della Palestina araba; e la definizione del rapporto di priorità o meno tra questo trattato di pace e i precedenti impegni dell'Egitto con gli Stati arabi. Begin vorrebbe che dalla formulazione di questi punti il trattato emergesse col carattere di una pace separata. Sadat vuole il contrario: non può certo dimettersi dal mondo arabo. Purtroppo la rivoluzione in Iran, che diviene da alleato di Israele alleato del mondo islamico (Khomeini è visceralmente anti-israeliano). ha enormemente accresciuto le preoccupazioni di Israele per la propria sicurezza; si annuncia più pericolosa la cessione dei territori e la futura autonomia palestinese; l'America, come alleato, sembra meno fidato; c'è il problema di sostituire il petrolio iraniano, dopo che Israele avrà ceduto all'Egitto i pozzi del Sinai. Ma, se tutto ciò rende Israele più intransigente, anche Sadat, rappresentante di un potere «laico» in un Paese dove già si delinea un risveglio islamico, deve irrigidirsi, deve cioè poter dimostrare ai suoi amici arabi (specialmente ai saudiani) che l'accordo a due è legato alla realizzazione di una futura pace globale. Il negoziato sarà quindi più difficile di quanto sarebbe stato qualche mese fa. * * * Begin e Sadat non ignorano che «l'intera regione è in subbuglio- (dice Begin) e che una rottura indebolirebbe drasticamente in tutto il Medio Oriente le forze politiche moderate, dimostrerebbe l'impotenza dell'America, darebbe un «immenso slancio»