Il Corano rosso dell'ayatollah

Il Corano rosso dell'ayatollah Il Corano rosso dell'ayatollah La scomparsa dalla scena di Snahpur Bakhtiar ha chiuso drammaticamente «l'ufficio stralcio» del regime Pahlavi.. In 48 ore, l'insurrezione popò-lare, l'improvviso mancato appoggio dell'esercito (ritirandosi in caserma ha abbandonato Teheran agli insorti) hanno demolito quel «progetto costituzionale» di Bakhtiar che. col placet degli Stati Uniti, avrebbe dovuto escludere al tempo stesso l'Imperatore fuggitivo .e Khomeini, lasciando le leve del potere all'in tellighenzia laica. Ma codesta intelliglvenzia ha privilegiato, ancorché non senza riserve, il movimento religioso e Bakhtiar è rimasto solo. Isolato dal Paese reale, condizionato dai militari, confortato, negli ultimi tempi, soltanto da una generica «simpatia» americana, Shahpur Bakhtiar ha finito col combattere una battaglia di retroguardia praticamente a colpi di intervista (ne avrà concesse almeno una sessantina in neanche un mese). Socialdemocratico filoccidentale, si richiamava a valori non condivisi dai giovani minori di 25 anni, vale a dire dal 60 per cento della popola-, zione iraniana. Ma chi sono questi giovani che, con la fronte fasciata dalla bianca benda dei fedeli votati al martirio, attaccano i carri armati degli «immortali», i pretoriani dello Scià? Sono coloro che a forza di manifestazioni pacifiche hanno cacciato il Re dei Re. Sono i figli della «rivoluzione bianca» lanciata, agli inizi degli Anni Settanta dallo Scià. Sono i giovani nati sotto !a dittatura instaurata nel 1953, scesi in piazza, fin dal gennaio dèi '78, a distribuire manifesti, a telefonare ai giornalisti. Quante volte non ci siamo domandati, durante la nostra esperienza iraniana, chi fossero questi uomini dai venti ai trentaelnque anni, padroni dell'inglese e del francese, che marciavano accanto ai cortei, che erigevano barricate «prendendo in consegna» i giornalisti stranieri? Gente educata, senza dubbio nelle università create dalla dinastia Pahlavi, i beneficiari dell'intensiva campagna di scolarizzazione promossa negli Anni Cinquanta. Due generazioni d'uomini, di militanti intellettuali che si son prefissi di abbattere un regime che per loro incarna la corruzione, la sudditanza all'imperialismo americano, la scelta d'uno sviluppo capitalista incompatibile con la loro concezione dell'identità nazionale. Due generazioni che han conosciuto la galera, sofferto la tortura. Due generazioni dove si mischiano, come in tutte le facoltà universitarie dell'Occidente, marxistileninisti, internazionalisti e nazionalisti, maoisti, troschisti. gauchistes d'ogni sfumatura, e socialisti ostili al comunismo. In più, tantissimi postulatori di un panislamismo mistico, riassunto nel «credo» della Sch'ia, una ideologia finalistica e messianica riproposta dal vecchio ayatollah Ma come è potuto accadere che i gauchistes si facessero «monaci» e i «monaci» si radicalizzassero? Come mai questa atipica alleanza? In forza' di una strategia indispensabile per realizzare l'obiettivo comune: la caduta del regime Pahlavi. Religiosi conservatori e attivisti progressisti diventano complementari: i primi portano ai secondi le masse popolari, senza delle quali gli «studenti» rimarrebbero isolati. I secondi insegnano ai primi le tecniche e i metodi appresi all'estero. E tutti hanno interesse a far credere che la rivoluzione si combatta nel nome dell'Islam: il clero sciita per affermare la sua leadership, gli «studenti» perché non intendono svelare subito il loro giuoco. Gli anni trascorsi insieme nelle moschee, veri e propri santuari raramente violati dalla Savak (la sanguinaria polizia politica dello Scià), divenute in fatto delle cellule finiscono con l'islamizzare i gauchistes e con il marxistizzare i mullah (catechisti coranici). Maometto e Marx: l'insolita alleanza, scrive Yves Guy Berges, partorisce alcune idee-c/ioc destinate a colpire soprattutto la stampa internazionale: un florilegio di quel che s'è visto e fatto da vent'anni a questa parte in tutte le manifestazioni del mondo, un campionario completo del «folklore rivoluzionario»: i garofani offerti ai soldati come in Portogallo; le donne avvolte nello chador nero che le rende simili a animose rondini terrestri, in testa ai cortei, come in Irlanda: lo slogan: «Siamo tutti Khomeini» che rimpiazza il «sza7no tutti ebrei tedeschi» del maggio parigino del '68. E. infine, la formazione dei due stooans-guida: «Un solo partito, quello di Allah»; «Vogliamo la repubblica islamica». Sennonché, per sollevare le masse, non basta denunciare satrapismo e corruzione, occorre dar loro un punto di riferimento per proseguire nella «rivoluzione». E' quello che han fatto gli «studenti», opponendo allo Scià dispotico e dissipatore la figura ascetica de\Yayatollah Khomeini. Creando intorno al suo nome una campagna promozionale all'americana, han favorito il suo «plebiscito... eliminando al tempo stesso il clero moderato. Facendo di lui il simbolo ideale della rivoluzione, gli «studenti» hanno dato al popolo una bandiera e un capo ideale. A questo punto, tuttavia, vien fatto di domandarsi se Khomeini non serva di copertura, come suol dirsi, ai gauchistes. Nelle 48 ore che han segnato la fine di Bakhtiar e. apparentemente, il trionfo dell'Imam, il popolo di Teheran è stato guidato e armato dai fedayn iraniani, dai mujaidin, dal gruppo «Palestina». Tutta gente istruita nei campi di Al Fatah e del Fronte popolare di George Habbash. In questo momento sono le «sinistre» a dominare la piazza. Certo non è finita ancora, tutto può accadere, ma supposto che il «movimento» vinca la partita scongiurando, grazie alla neutralità dell'esercito, la libanizzazione dell'Iran, non è possibile che il Paese scopra — oggi o domani non importa —. e piuttosto brutalmente un nuovo rapporto di forze tra i dirigenti religiosi e i partigiani di un potere popolare marxisteggiante? Posto di fronte a questo interrogativo, qualche giorno prima dell'insurrezione armata. Abolhassan Banisadr. 48 anni, religioso fervente, economista formatosi a Parigi, l'uomo che nel 1967 convince Khomeini a passare «dalla negazione all'anione», ha risposto innanzitutto citando Henry Corbin, il massimo islamista d'oggi: «... il problema non è di discutere ciò che gli occidentali trovano o no nel Corano. E', invece, di sapere ciò die i musulmani vi trovano di fatto». Banisadr, sulla scorta degli studi di Ali Shariati, mutuati dal rinnovamento della lettura coranica attuato al principio del secolo da Jamal Eddin Afgani, ha in qualche modo reinventato la dottrina sciita per porla in consonanza col tempo moderno. Per lui il concetto di Imamat, un caposaldo teologico-apostolico, si trasforma in •un principio rivoluzionario. Nasce il sospetto che quanti non dovessero riconoscersi nella «condizione mistico-giustizialista» dell'/tomo islamicus, potrebbero venire emarginati se non perseguitati. Da qui verosimilmente, la sortita armata dei gauchistes: come a mettere le mani avanti per affermare, al contrario di quanto sostengono Bazargan e lo stesso Banisadr, che nel «partito di Allah» i rapporti di forza debbano esistere, che non si può negare ogni valore all'analisi classista della società. Essa non può. insomma, dividersi in due grandi categorie: i credenti e i non credenti. Non è finita, anzi: tutto deve ancora cominciare. «L'Iran, disse una volta Kruscev a Walter Lippmann, è una mela bacata e tutto quello che dobbiaìno fare è attendere che ci cada in mano». O sarà, invece. Khomeini a raccogliere la mela? iKOr Man

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