Woody Allen: Racconto un'infelicità di Furio Colombo

Woody Allen: Racconto un'infelicità INTERVISTA SU "INTERIORS,, GIUNTO SUGLI SCHERMI ITALIANI Woody Allen: Racconto un'infelicità E' quella di una certa America, di una certa New York, «quella di chi, col denaro e il prestigio sicuri, non deve mai misurarsi con niente» - Il famoso comico, in un film drammatico nel quale non recita, affronta «una umanità che non sa esorcizzare i fantasmi, che non ha sogni, follie, desideri impossibili come i negri, gli ebrei, gli immigrati» - «Una storia d'amore» a i o e e e . o a a i o i a è e a è . a : NEW YORK — Con le spalle appoggiate al muro sembra preoccupato della difesa. Gli occhi sgranati dietro le lenti, gli occhi resi celebri dalle inquadrature dei film, dalle foto di copertina, dai fumetti che lui stesso ha messo in circolazione, controllano come radar il paesaggio minaccioso. Woody Alien guarda il mondo coinè se il rischio fosse di rimanere schiacciato, calpestato, travolto. Come se questo party in una bella casa del West Side newyorkese fosse l'ultimo treno di Shanghai, ispezionato dalle sentinelle del Kuomintang. Se è venuto qui da solo o in compagnia, come al solito non si capisce. La sua tecnica è tenersi a distanza, cercare sempre la difesa di un muro, sfuggire al gruppo appena gli si stringe intorno. Se c'è una donna che lo accompagna, la consegna è non stare vicini, non farsi vedere insieme, lasciarsi prima di entrare nell'ascensore, ritrovarsi in strada, mai davanti all'ingresso. Parlargli è come picchiare il bambino più debole nel corridoio della scuola. Comincia a battere le palpebre in fretta e cerca, a destra e a sinistra, uno scampo. Basterebbe il passaggio di un vassoio di crostini, il pretesto di «rinfrescare il drink». Poiché non beve, ha le mani cacciate per sempre in fondo alle tasche. Estrarre la destra e porgerla è una attività complicata. Serve a tenere impegnati i primi cinque minuti. Perché si presenti in queste occasioni inondane rimane un mistero. La sofferenza del «sociale», del «pubblico» in Woody Alien sembra grandissima. Sarà un gioco, naturalmente. Ma il gioco non conosce il momento del respiro di sollievo o la caduta della finzione. Può succedere, lentamente, impercettibilmente, se rimane poca gente, alla fine. Ma anche questo è un fatto raro. Woody Alien va via prestissimo. Può darsi che sia venuto perché l'ospite è un editore, perché circolano nelle sale poetesse in lungo e traduttrici dal russo, e tutte queste facce, nel suo repertorio (compresi i gesti di finta disinvoltura delle ragazze, che si esprimono in tanti nodi di braccia, di mani, di dita) ci stanno benissimo o forse si è lasciato attrarre, con i suoi jeans di velluto e le sue scarpe da tennis e relativo maglione, perché ormai ha il gusto morboso di osservare i gruppi protestanti upper class con almeno una casa di proprietà a Manhattan e l'altra a Southampton, con facce ben conservate e severe, belle maschere nitide che nascondono un abisso d'insicurezza. Come nel suo ultimo film, Interiors. Della prima frase che dice capisco solo — fra le risa troppo forti, le facce impacciate, le strette di mano sudate che si annodano intorno a noi la parola: «WertmUller». Richiesto di ripetere, si guarda intorno con una certa paura. Che ci siano microfoni? Woody Alien schiarisce la voce e con lo stesso impercettibile tono (che sembra uno scherzo, ma la faccia è talmente triste) ripete: «WertmUller». E poi subito si irrita e come un bambino ripete, incapricciato, senza alzare la voce: «WertmUller, WertmUller... Sembra un esperimento di conversazione con qualcuno che stia uscendo da una fase autistica (quelli che sentono e capiscono tutto ma per ragioni psichicamente misteriose non rispondono mai). Guarda con gli occhi ben dilatati come a dire: possibile? E' cosi chiaro. Ma ostinatamente si ferma. Vuole la prova di essere stato capito. In una rara effusione espressiva a quanto pare voleva dire: «Ma certo che ricordo dove e quando ci siamo incontrati. E' stato ad un party per Lina WertmUller quando la regista italiana aveva presentato il suo ultimo film a New York. E' stato nella suite dell'hotel Navarro quando sono andato a trovarla e abbiamo discusso se fare o no un film insieme. E' stato prima che mi mettessi a girare Interiors». Woody Alien approva la traduzione in frase coerente della sua unica parola. Quando inghiotte si vede bene, di profilo e davanti. Quando inghiotte, dicono, è imbarazzato. Inghiotte più volte e si umetta le labbra. Guarda in giù e poi in su come a dire: «Allora?». Ma naturalmente non parla. Dicono che sia un segno importante se non va via. Per questo, ho notato, quasi tutti coloro che cercano di parlargli cercano di bloccarlo quando passa in un angolo, e piazzano un braccio ben fermo contro il muro. Lui con tutta la sua timidezza non esita a piegarsi, passa sotto il brac- ciò e va via. Qui invece resta. La sua espressione è quella di uno che ha i riflettori in faccia e la Kgb in ascolto. Ma resta. Come fa quest'uomo, che è irrimediabilmente comico in ogni minimo gesto, nel puntare le sopracciglia in alto come una vittima, nel deglutire come se fosse un esercizio da avanspettacolo, nel puntare le mani in fondo alle tasche come Charlot e Jackie Coogan, come fa a essere il regista irrimediabilmente serio e drammatico di un film come Interiors? Gli dico: «Ingmar Bergman assomiglia ai suoi film, ai suoi personaggi disperati. Woody Alien no. Woody Alien ha prodotto dei figli che non hanno niente a che fare col padre. Woody Alien me lo ricordo seduto su uno sgabello al "Bitter End", un locale del Village, nel 1960, quando raccontava le irresistibili sto¬ rie del ragazzino ebreo dei bassifondi di Brooklyn, raccontava storie che finiscono sempre male ma sono pazzamente comiche. Come nella tradizione yiddish si può ridere e piangere. Ma piangere solamente, mai. Cosa può dire a sua giustificazione o difesa dì Interiors. come spiegare?». La domanda gli appare talmente odiosa che produce un buon risultato. Perché, come annuncia in apertura di frase, lui è soprattutto un masochista. Inoltre gli piace, forse, che il discorso non sia cominciato con un complimento. E dice: «Molta gente passa la vita a toccare fantasmi. Allunga la mano e non trova. Si può ridere di un simile gesto, se la persona che lo compie un po' sa di toccare i fantasmi.Come Annie Hall, che si torce e ritorce le mani per paura di toccare sempre e soltanto il vuoto. Gli emigrati, ebrei, italiani, i poveri, i negri, sanno come esorcizzare i fantasmi. Hanno sogni, illusioni, speranze frustrate, follie, desideri impossibili. Hanno la canzone a squarciagola ve'" italiani), il bisogno nervoso di dire sempre una cosa che fa ridere tutti (gli ebrei), il desiderio patetico di essere benvoluti (le ragazze brutte, altra minoranza da non trascurare, problema ben più serio del femminismo). «Ma — continua Woody Alien — i protestanti americani che si sentono aristocratici e sono avvolti dalla pellicola impalpabile del nome riconosciuto, del denaro sicuro, del prestigio collaudato, e non devono mai misurarsi con niente, quando allungano le mani e non toccano niente, non si raggiungono l'un l'altro, non si sfiorano neanche con la punta delle dita (perché sono puritani e gli hanno insegnato a non tener conto del corpo) proprio non fanno ridere. La strada del suicidio è la strada naturale, per una che va a lavarsi nel mare per liberarsi del corpo. Il corpo è un grande ingombro se sei uno educato e radicato nella tradizione puritana». Un film contro, allora, un film di vendetta? «No. anzi, una storia d'amore. Nessuno più di un ebreo di New York pu^> ^mare questo tipo di umanità che non riesce a vedersi e non riesce a toccarsi. Interessa. Intriga, appassiona. Non ha detto Tolstoj che la felicità è sempre uguale? L'infelicità invece è un grande soggetto». Si è creato un cerchio di silenzio e attenzione e il momento per Woody Alien diventa terribile. Woody Alien non parla in pubblico. Si schiaccia contro il muro come se volesse abbatterlo con la schiena e fuggire. Si guarda intorno nel gruppo come se il rischio fosse di essere linciato. Gli si vede negli occhi il terrore che qualcuno abbia ascoltato, tutta di seguito, una frase intera. Annuncia, ruotando per un attimo le mani nel vuoto: «Parlavamo della WertmUller». E' come se avesse buttato una bomba a mano nel gruppo. A due, a tre le persone si confrontano, si sfidano, si gettano in discussioni febbrili in cui ognuno lancia contro gli altri i titoli dei film della regista italiana, come si tirano le sveglie durante una litigata. Ma Woody Alien non ride. Fedele all'antica regola dei grandi comici, non ride mai. C'è il pericolo che si prenda sul serio, troppo sul serio? Forse la maleducazione lo interessa perché risponde. Con maleducazione, ma risponde. «Intanto è una domanda insensata. Ognuno ha la sua faccia, la sua immagine e se la tiene. Sono io che decido che cosa faccio vedere di me. E' un privilegio che avrei anche se fossi un droghiere. Oggi sono di buon umore e domani sono nero e si vede. Oppure fingo allegria perché è il compleanno della nonna e bisogna stare insieme e sorridere e un'altra volta l'odio può scatenarsi liberamente. Interiors non è il frutto di un momento di cattivo umore. E' la prova che uno o è un regista o non le è. Se lo è. chi ha detto che qualcuno deve far solo ridere e qualcu¬ no deve far solo piangere? La vita è tutto, e allora lo è anche il lavoro, che nel mio caso sono le storie, i film. Interiors mi va bene come...» col mento indica pullover e calzoni «mi va bene come Annie Hall». Si guarda intorno stupito di avere parlato tanto. Si abbassa come per sfuggire a un riflettore o a un ostacolo, si piega di lato — sempre con le mani in tasca — come se dovesse sgusciare tra una folla fitta e pericolosa. E va via. Furio Colombo Tre espressioni tipiche di Woody Alien attore comico

Luoghi citati: America, Manhattan, New York, Shanghai