Tutti i disoccupati assunti dallo Stato?

Tutti i disoccupati assunti dallo Stato? TANTE POSSIBILI SOLUZIONI Tutti i disoccupati assunti dallo Stato? Alla fine del '78 quanti sono i disoccupati in Europa? Il loro numero si aggira sui cinque milioni, ossia il 5,5 per cento della popolazione attiva. Limitandoci ai soli giovani, il numero dei sema lavoro è passato, nel volgere di cinque anni, dalle 500 mila ai due milioni di unità. Di quanto cresce nel frattempo la farsa lavoro? Il potenziale europeo di manodopera aumenta ogni anno dello 0,8 per cento, il che significa che ogni anno circa un milione e messo di nuovi lavoratori si affaccia sul mercato del lavoro. Il problema è destinato a sussistere in tutta la sua gravità per almeno una decina di anni, fino al momento almeno, in cui non interverrà una diminusione della popolazione: nel 1990-95, si potrebbe addirittura verificare una penuria di manodopera. Le cause e le solusioni del grave problema della disoccupazione sono state analizzate al Circolo Bergerdorfer, un Istituto di ricerche di fama internazionale che ha sede ad Amburgo. Si è constatato che all'origine della disoccupazione stanno: l'instabilità dei cambi, l'incertezza operativa delle imprese, il flusso dei capitali verso l'estero, l'aumento dei prodotti petroliferi, ed infine, il lavoro nero. Nel corso del dibattito, il professor Streissler, dell'Università di Vienna, ha sostenuto l'inopportunità di fare delle acrobazie, in una «società opulenta» come la nostra e basata sull'economia delle imprese per tentare di assicurare a ciascuno il suo posto di lavoro. «Chi non riesce a procacciarsi una "attività significativa dovrebbe essere assunto alle dipendenze dello Stato", soluzione già messa In pratica da non pochi Paesi del mondo occidentale, primo tra tutti l'Inghilterra». A Streissler, tuttavia, questa alternativa non piace: «L'obbiettivo dovrebbe essere quello di inserire la manodopera disponibile nell'economia privata». Il direttore della Banca Nazionale Austrìaca, Kienzl, ha richiamato l'attenzione degli studiosi sulla preoccupante analogia esistente tra la situazione attuale dell'economia e quella a cavallo tra le due guerre. Allora gli Stati sconfitti furono costretti dai' vincitori a pagare i debiti di guerra senza avere la possibilità di guadagnare le somme spese per pagare tali debiti. E allorché si vide che era impossibile colmare tale «buco», neanche attraverso il credito, ci fu il crollo dell'economia mondiale. Al giorno d'oggi fiumi di miliardi affluiscono ai Paesi dell'Opec, per essere rimessi sul mercato sotto forma di potere di acquisto. Tale reingresso risulta però assai pregiudizievole per la creazione di nuovi posti di lavoro. E' la tesi del ministro tedesco per la Ricerca e la Tecnologia, Volker Hauff: «La sola Germania avrebbe potuto impiegare diversamente negli anni tra il '73 e il '75, i circa 40 miliardi di marchi spesi per importare il petrolio. La somma corrisponde al reddito medio di due milioni di tedeschi». Non è solo l'esodo dei capitali verso l'estero la causa della crescente disoccupazione ma anche la strenua lotta sul tema lavoro tra Paesi industrializzati e in via di sviluppo. L'Europa occidentale presenta attualmente un mercato parziale ben definito: le nazioni industriali infatti si impegnano sempre di più verso prodotti «intelligenti» che richiedano scarso impiego di manodopera. I prodotti per cui occorre un lavoro intensivo, prendono invece la via dei Paesi in fase di sviluppo. «Questi sconvolgimenti nella struttura del mercato del lavoro furono sperimentati negli Stati Uniti una decina di anni fa», ha detto Otto Kreye, collaboratore scientifico dell'Istituto Max Plank di Starnberg. «Si verificarono allora dislocazioni produttive in Messico, nel Sud Est Asiatico, ma soprattutto nell'Europa Occidentale. Dagli Stati Uniti venne praticamente esportato un boom produttivo. Qui, in Europa, i posti di lavoro si moltiplicarono. Là, negli Stati Uniti, cominciò ad infuriare la disoccupazione». Il professor Fels, dell'Istituto di Economia di Kiel, ha toccato nel suo intervento il tasto dolente della riduzione dell'orario quale palliativo di disoccupazione. Egli lo considera un bene, strettamente correlato al profitto: «L'imprenditore si trova di fronte ad un dilemma: più tempo libero, da una parte, oppure più profitto dall'altra. Lo slogan "meno orario, a parità di stipendio" non lo esime dalla scelta, anche perché ad orario invariato, i salari potrebbero accrescersi ulteriormente». Il ministro Hauff, a sua volta, ha denunciato la falsità dell'ipotesi per cui un incremento di produttività metterebbe in pericolo i posti di lavoro. Secondo uno studio compiuto negli Stati Uniti sono proprio quei rami di attività industriali con maggior tasso di crescita produttiva ad avere la più alta capacità di occupazione. Ecco perché Fels definisce «assai sensate» le sovvenzioni programmate dallo Stato in favore di alcuni settori industriali in via di sviluppo e lo stesso Hauff, difende queste «iniezioni» di denaro in favore delle aziende più produttive: «Si dovrebbero incoraggiare in genere gli imprenditori ad investire di nuovo in modo massiccio. Solo In questo modo si creano le possibi¬ lità per abbattere la disoccupazione dilagante». Pienamente d'accordo su questo punto Dieter Spethmann, presidente dellai Thyssen AG, la più grande società mineraria tedesca: «La costruzione di una centrale nucleare in grado di fornire 1200 megawatt dà lavoro, in un anno, a 39 mila uomini. Un'altra possibilità è individuabile nell'edilizia: i giovani nati nelle annate più popolose sono ormai giunti all'epoca delle nozze. C'è quindi bisogno di costruire nuove case per le nuove coppie». Ma un altro pericolo per lo sviluppo del mercato occupazionale sta nella forte crescita del cosiddetto lavoro nero. Gli esperti avrebbero calcolato in 25-30 miliardi di marchi all'anno il «giro» d'affari corrispondente, il che significa quasi il due per cento del prodotto nazionale lordo tedesco. Su queste basi — dice Spethmann — si può azzardare, un'ipotesi sul numero dei posti di lavoro in meno provocati dal lavoro nero: circa 450 mila. Altre considerazioni emerse nel corso del dibattito sono che la valorizzazione del tempo libero si diffonde sempre più, che la stessa disoccupazione viene considerata da molti nulla più che un problema esistenziale, e che tuttavia lo stesso lavoro viene da molti altri vissuto come forma di partecipazione alla vita sociale. Si è anche parlato molto di: «smilitarizzazione»: dell'orario di lavoro, della maggior possibilità di scelta. offerta a chi è già occupato, tra tempo libero e più lauti guadagni. Si è accennato infine alla possibilità di ampliare le possibilità di lavoro «part-time» e di ridurre l'età, .pensionabile. Hans Baumann Crescita dei settori «non df mercato» in Gran Bretagna (le quote sono espresse in percento sul netto dell'esportazione) 1961 1965 1969 1973 1974 Consumi «non di mercato» 33,7 34,5 36,8 39,8 43,8 Consumi finanziati dal mercato 56.1 54.1 51,5 51,8 51,9 lnvestimenti meno esporta7.ione netta * 6,3 6.1 6,8 2,7 —1,0 Allre catcgorie 3,9 5.3 4,9 5,6 5,3 * Investimenti (senza il settore edilizio) più esportazione meno importazione. Rapporto tra occupati nel settore industrializzato * rispetto a quello non industrializzato Variazione 1961 1975 in percento Regno Unito 0,970 1.368 +41,0 Gcrmania Federalc 0.758 1,007 +32.8 StaliUniti 1,808 2.313 +27.9 Francia 1,057 1,295 +22,5 Italia ' 0,808 0,908 +12,6 ' Giappone 1,374 1.436 + 4,5 * Senza agricoltura.

Persone citate: Dieter Spethmann, Fels, Hans Baumann, Hauff, Thyssen, Volker Hauff