"Sono regredita allo stato di mamma,, di Lidia RaveraLidia Ravera

"Sono regredita allo stato di mamma,, LIDIA RAVERA RACCONTA LA SUA ESPERIENZA DEL PARTO "Sono regredita allo stato di mamma,, Lidia Ravera, personaggio della contestazione giovanile, autrice di Porci con le ali e di Ammazzare il tempo ha avuto un bimbo. Qui ci racconta pensieri e stati d'animo della maternità. La macchina procede con cautela nel primo traffico di una Roma ancora grigia, il mio compagno e mia madre, educatamente, fanno conversazione sui cornetti caldi e sul Tevere quant'è limaccioso. Io sorrido, molto truccata: dentro sto parlando a mio figlio, con piccoli segnali di diaframma, un alfabeto che solo io e lui sappiamo usare. Lo prego di collaborare, di stringere le ossa del cranio (le ha morbide e non ancora definite, lo so, l'ho letto su un libro) e sgusciare da me facilmente come il tuorlo dall'uovo. E' lunedi, si aprono gli uffici dopo il weekend e io sto andando a partorire come si va ad un appuntamento: niente ansia, niente doglie, niente che sia men che civile. Dicono: parto pilotato, ottimo per trentenni razionali con utero facile alla dilatazione, preparazione classica e tendenza naturale all'autocontrollo. Io in mano stringo disperatamente la penna e il notes, la suora sorride (se nessuno si accorge che ho le nocche bianche, la mia immagine non si sgualcisce). Tutto collabora al gioco, il ginecologo indossa un camice di sartoria, il travaglio si nasconde in una camera d'albergo, mia madre piange in corridoio ma vicino al mio letto sorride un dolce sorriso stizzito. Al bambino continuo a parlare, fra gli ansiti di una tecnica respiratoria mal appresa in corsi psicoprofilattici troppo affollati: «Eppure c'era un buon motivo per non mandarti via... Lo sai come si fa? Ti succhiano con una pompetta mentre sei ancora troppo piccolo per puntare i piedi... ho scommesso mesi fa qualcosa su di te... soltanto... non mi ricordo cosa», e intanto faccio un piccolo inventario. Lo compilo per distrarmi, nelle pause di quei dolori che ho sentito descrivere da troppe donne. Perché volere un figlio, dall'alto o dal basso dei miei 28 anni emancipati? Sogno di un affetto o narcisismo? Solitudine, avidità o imitazione degli dei? Voglia di mettere in calce all'atto che mi sancisce «donna-diversa» il marchio della magica femminilità tradizionale? «Bambino, vorrei nascere e che fossi tu a generare» : mi lamento, mentre si allenta il gioco del «saper partorire» e di minuto in minuto divento più cattiva, rimanendo pur sempre meno arrendevole di una madre, meno incosciente di un bambino e meno forte d'un uomo, incerta nella mia transitoria condizione di partorire. Arriva a li-: berarmi dal faticoso principio di prestazione (una tendenza che il personale ospedaliero incoraggia spietatamente, quasi mettere al mondo un figlio fosse una gara a cronometro), un'anestesia non richiesta: saprò che è un maschio dopo, al risveglio, e ingoierò un «che mi frega» poco consono alla dedizione di rito. In realtà l'amore materno non è più la reazione immediata della cagna, non è vero che si leccano 1 cuccioli, almeno non subito, non fra garze sterili pillole e aghi. Bisogna prima sottrarsi all'istituzione, se no, più che madri, ci si sente operaie della natalità, costrette a produrre piccoli marchingegni pregiati e immediatamente espropriate, costrette ad allattare velocemente come mucche da fiera bovina e violentemente private di quel lento succhiare sul seno perché i piccoli devono stare tutti in fila in un calore da serra per pomodori prematuri. Oggi si partorisce cosi: nel minimo rischio, nel massimo gelo. E se fai tanto di essere triste e di non gorgheggiare subito ninne-nanne, c'è qualcuno che ti racconta di sua nonna: stava li nella stalla, felice, con due tette come due cocomeri e di figli ne ha fatti sedici e allattando guidava il trattore. Fino a quindici giorni fa avrei riso, e. fumando, avrei improvvisato allo stupido cultore della nonna gravida un comizio in chiave di liberazione, forzando magari i toni dello scherno. Invece mi spunta una specie di pianto impre¬ visto: se prima del parto ero fiera del mio self-control da donna razionale, a bimbo nato vorrei essere fragile e generosa, pronta a negarmi, femmina naturale. Come la cagna, come la nonna plurìpara che tutti mi vengono a vantare. Scopro subito, cosi, che ridefinire la maternità a immagine e somiglianza della Nuova Donna, non è facile come incollare una marca da bollo. Sarà un lavoro lungo, non ci si libera per decreto notarile da immagini sedimentate a livello di inconscio collettivo. La stessa società che ti propone il parto sterilizzato, ospedalizzato, da consumarsi per appuntamento, che ti fa leggere fin dal primo giorno della gravidanza le moderne teorie pedagogiche di Marcello Bernardi (l'antiau¬ toritario analista dell'infanzia), che ti gratifica con l'onerosa etichetta di donna-uomo, non rinuncia a ricattarti col mito della donnanatura, silenziosa fattrice, dea della riproduzione della stirpe. Risultato: non ti stacchi dalla culla, ma non dubiti che dovresti lavorare, riflettere. Che dovresti trasformare anche il parto in un'esperienza culturale, perché se lasci fare ai maschi si parlerà solo sempre di guerre e nascere, in fondo, è ben più importante che morire. Intanto Sua Maestà il Bambino ti guarda, con quelle sue smorfie di neonato che tu chiami «imperfetto controllo della muscolatura del viso» e tua nonna chiamava .sorrisali», con la sua clamorosa richiesta di tutto e quella piccola bocca vorace sede del Piacere Assoluto. La stanza, lentamente, sprofonda nell'oscurità, nascondendo ingenti quantità di consumi superflui, mentre lui piange e dorme e piange e respira. Quante ore sono rimasta in silenzio a guardarlo? Due, tre? E perché non ho preso in mano un libro, un giornale, perché non ho «approfittato del tempo» come ho sempre fatto, dedicandomi a me con la solita grinta virile? Regredita allo stato di mamma, mi confondo con. lui in un protoplasma senza contorni definiti, fuori da noi il mondo sembra, per un momento, inafferrabile. Ho la sensazione, netta e precisa, che qualcosa si sia spezzato: forse l'illusione di essere «come loro», come i maschi, un'illusione che mi porto dietro da quando a sei anni, per copiare i bambini mi bagnavo le stringhe facendo pipi all'in piedi. E' una sensazione felice. Ma dura soltanto un minuto. Lidia Ravera Lidia Ravera in una foto di qualche tempo fa

Persone citate: Lidia Ravera, Marcello Bernardi