Molte crisi, pochi cambiamenti

Molte crisi, pochi cambiamenti CADUTA DEI GOVERNI E RIMPASTI NELLA NOSTRA STORIA RECENTE Molte crisi, pochi cambiamenti Trentadue anni fa De Gasperi, di ritorno dagli Stati Uniti, annunciò le dimissioni ministeriali - Non cambiò nulla e la crisi si ripetè qualche mese dopo: nacque un governo diverso, senza comunisti - Il modello è durato sostanzialmente uguale fino a oggi e il problema chiave resta lo stesso: il pei dentro o fuori della maggioranza Tutte le crisi ministeriali si rassomigliano, e raccontarne una serve a dare un'idea di tutte le altre. Incominciano sempre nello stesso modo, con la promessa che saranno «pilotate», ma poi c'è sempre qualche cosa che non funziona: o che al pilota sfugga il timone di mano o che si frammetta un imprevisto; insomma in questi ultimi trent'anni le crisi sono andate per le lunghe poi arrivando a conclusioni inaspettate. Ma, intendiamoci bene: con questo non voglio dire che il loro modo di concludersi sia stato sorprendente. Tutto al contrario, le crisi si risolvono in Italia col darci un governo quasi uguale a quello che lo aveva preceduto. Sostanziale identità di programmi, per esempio, o più precisamente identità assoluta di promesse; e per il resto qualche variante pressoché impercettibile, non più che sfumature di differenze superficiali. E' come quando l'esperto meteorologico annuncia la sera in tv: Temperatura senza notevoli variazioni. Però, se è vero che pur senza notevoli variazioni giorno per giorno si arriva comunque a passare da una stagione all'altra, dal caldo dell'estate al gelo dell'inverno, in fatto di governi non direi che. avvenga la stessa lenta, ma graduale e fatale evoluzione. In fatto di governi, se vado ripensando a quelli di dieci, di venti, di trent'anni fa, ho l'impressione che tutto sia sempre rimasto allo stesso punto, di crisi in crisi o di rimpasto in rimpasto. Del resto, questo gioco della continuità senza sensibili variazioni ha le sue regole. Si va un po' a destra e un po'a sinistra volta a volta, poi si ritorna al centro e ci si sta fi-, no a quando più o meno impercettibile riprende il lento e quieto moto pendolare. I liberali entrano ed escono, e cosi pure i repubblicani e i socialdemocratici e addirittura i socialisti: ma questo non significa connotazione particolare di un governo, tanto è vero che una stessa persona — nella specie l'onorevole Giulio Andreotti — ha potuto nel giro di pochi anni presiedere un governo spinto a destra in virtù dell'onorevole Giovanni Malagodi che ne faceva autorevolmente parte, e poi un altro spinto a sinistra, in grazia dell'appoggio che gli dava l'onorevole Enrico Berlinguer. Però, parlando di comunisti il discorso si fa particolare, come se essi costituissero una di quelle eccezioni che confermano la regola. Difatti, le sole crisi di un certo significato nella storia della Repubblica sono state quelle che dovevano portare all'estromissione dei comunisti dal governo; tutte le altre a loro tempo quasi non facevano notizia e certamente oggi non fanno storia. Erano in casa I comunisti, invece: o dentro o fuori, ecco il problema. De Gasperi se li era trovati in casa (intendo dire la casa governativa che egli si era appropriata) fino dal tempo della Costituente e non c'è dubbio che il suo pensiero dominante fosse la ricerca del modo di metterli fuori. Ci si provò alla prima occasione, in gennaio del 1947, quando fece un viaggio negli Stati Uniti, per tenere una conferenza a Cleveland, Ohio, invitato da una locale Foreign Affairs Association, centro di studi di politica estera. Ma si sa bene in che cosa consistono le escursioni culturali degli uomini politici: le conferenze in pubblico sono un pretesto, rituale e trasparente copertura delle conversazioni in privato. De Gasperi ne ebbe difatti con Truman, presidente degli Usa allora in carica, e con Byrnes, segretario di Stato del tempo. Per quanto rigoroso fosse stato il riserbo attorno a quei colloqui, il senso sostanziale ce ne fu chiaro. Quando De Gasperi tornò in Italia ci apparve come ricaricato, baldanzosissimo, e la prima cosa che fece fu di annunciare che avrebbe presentato al presidente De Nicola le dimissioni del governo. Ci si lamenta oggi che le crisi ministeriali siano aperte fuori del Parlamento: be', mi ricordo che De Gasperi annunciò la sua durante una conferenza stampa, ancora prima che ai ministri suoi colleghi di governo. Fu una mattina del gennaio di trentadue anni fa, in una grande sala del Viminale dove eravamo in duecento persone, tra giornalisti italiani e stranieri, e fotografi. C'erano anche il vicepresidente del Consiglio Cino Macrelli, repubblicano; il ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella, e il ministro del Commercio estero Pietro Compiili, democristiani tutti e due. Macrelli, per la verità, ci si trovava per caso: era venuto al Viminale solo per comunicare a De Gasperi che nel congresso tenuto a Bologna in quei giorni il pri aveva confermato la sua fiducia nel governo. Cosi arrivando a palazzo aveva trovato De Gasperi che stava sulle mosse per venire nella sala dove i giornalisti l'attendevano, e il presidente quasi non lo stette a sentire: «Caro Macrelli, bene, grazie — gli disse — ne parleremo dopo con più calma. Ma sì, ho capito, vieni pure con me». Parlando, intanto, se lo portava via, se lo tirava dietro, e nella sala della conferenza stampa lo fece sedere alla propria destra, e da quel posto d'onore Cino Macrelli ci guardava soddisfatto con un sorriso che allargava ancora il suo volto, pur già tanto bonario. Ma si capiva che era all'oscuro di tutto, come gli stessi Campilli e Gonella ignoravano dove De Gasperi sarebbe andato a parare. Era in programma della conferenza stampa una specie di relazione sul viaggio americano del nostro presidente del Consiglio, e difatti del viaggio egli ci parlò diffusamente, dandoci fra l'altro il primo annuncio della costituzione, grazie ai suggerimenti americani, di quella che sarebbe stata poi conosciuta sotto il nome di Cassa per il Mezzogiorno: «Sarà sul modello — et disse De Gasperi con un certo sussiego — della TVA, Tennessee Valley Authority, la grande creazione del grande presidente Roosevelt». La notizia delle dimissioni del governo ci fu servita alla fine del discorso, nel quadro di una perorazione che De Gasperi pronunciò con accenti di energia, per un verso appellandosi all'Ente Supremo e per un altro alle tradizioni della nostra civiltà. Appariva nell'atteggiamento di un profeta guerriero profondamente ispirato, e il senso delle sue parole era un proclama d'intransigente risoluzione nella condotta da tenere nel corso della crisi. Univa ad una certa autoritaria concisione una tendenza al perentorio che ad esempio mostrò nel rispondere a una domanda che gli rivolsi: « Come ritiene che si atteggeranno gli altri partiti di governo di fronte ad una crisi che si sta aprendo qui, a loro insaputa?». «Sulla necessità della chiarificazione — mi disse un poco secco — siamo tutti d'accordo: la scelta dei modi per ottenerla è una prerogativa del capo del governo». Dopo di che girò uno sguardo severo sull'assemblea dei giornalisti, non si curò dei tre ministri che gli stavano attorno tutti sorpresi, ma nessuno comunque ebbe il coraggio di obbiettare alcunché, neppure il repubblicano Macrelli, anche se visibilmente seccato. Ma questi poi mi spiegò che se non fosse stata la personale deferenza che sentiva per De Gasperi, si sarebbe alzato in piedi a protestare pubblicamente in nome del suo partito e della stessa Costituzione. Ma, quando c'è la deferenza, finisce che le cose vanno in altro modo. Ai loro posti Non starò a dire adesso, per non allungare troppo questa storia con particolari superflui, di quanto seguì nel Paese in quei giorni, in fatto di polemiche e accuse e denunce e lamenti per la scorrettezza di De Gasperi, uomo evidentemente capacissimo di audacie, pronto ai colpi di scena e alle improvvise risoluzioni. Ho piuttosto da dire che al termine di un paio di settimane fu rifatto un governo che era la copia conforme di quello di prima:' e vale a dire con i comunisti ancora dentro, tutti ai loro posti. Chi sa che cosa era successo. Quella crisi ministeriale avrebbe avuto un senso solo a condizione che i comunisti fossero stati una buona volta estromessi dalle stanze del potere, come sicuramente' aveva chiesto Truman a De Gasperi in quelle prime aurore della guerra fredda. Lo stesso invito era stato rivolto anche alla Francia, e il governo Ramadier si stava appunto accingendo a liberarsi dai ministri del pcf. Si può pensare che De Gasperi — ancora fresco delle suggestioni americane — avesse avuto per un momento la tentazione di comportarsi da primo della classe, estromettendo il pei senza por tempo in mezzo: ma che ci abbia poi ripensato. C'era il trattato di pace da sottoporre alla ratifica parlamentare, e non conveniva che i comunisti si trovassero all'opposizione; dovevano impegnarvisi anche loro. Poi c'era il concordato con la Santa Sede da inserire nel-, l'articolo 7 della Costituzione, e con i comunisti all'opposizione non sarebbe stato aritmeticamente possibile: insomma, l'audacia anticomunista rientrò, confermandosi così che nel nostro paese le crisi di governo hanno un valore solo in funzione del pei. Se nei riguardi di quel partito la situazione resta come prima, vuol dire che il governo non è cambiato. Trentadue anni fa, dopo quella inutile crisi di gennaio, De Gasperi ne fece una seconda a maggio, e fu la volta buona per liberarsi della presenza comunista al potere, e nacque finalmente un governo diverso, che fu il, modello poi durato sostanzialmente uguale fino ad oggi, «senza sensibili variazioni» di crisi in crisi. Adesso, dopo trentadue anni, mi sembrano giuste certe osservazioni su certe analogie che si presentano evidenti. C'è anche oggi un problema d'emarginazione dei comunisti, i quali non sono al governo ma stanno dentro alla maggioranza. Questa volta in America al posto di De Gasperi c'è andato Zaccagnini, e non c'è dubbio che Carter gli abbia ripetuto le cose già dette a suo tempo da Truman. Può essere la crisi l'occasione per accogliere con prontezza le suggestioni americane? E' comunque probabile che le suggestioni americane varranno come deterrente contro le richieste dei comunisti di rientrare una buona volta nel governo. In conclusione si può azzardare che non avremo né la cacciata né l'ammissione dei comunisti, e una volta di più si ricomincerà senza sensibili variazioni. Perciò mi' sembra giustificata la domanda che da tante parti d'Italia si leva in direzione del palazzo: ma queste crisi, veramente, sono servite mai a qualcosa? Vittorio Gorreslo Un'immagine del 1949: Alcide De Gasperi con Giulio Andreotti