Il complotto dei "barbudos" traditi di Furio Colombo

Il complotto dei "barbudos" traditi RANCORI E NOSTALGIE NELLA "PICCOLA AVANA,, DI MIAMI Il complotto dei "barbudos" traditi I cubani esiliati negli Stati Uniti cercano, anche col terrorismo, di impedire il «tradimento» americano e l'istituzione di normali rapporti tra Washington e L'Avana - Resta misterioso, ambigua il ruolo di alcuni ex guerriglieri, che furono compagni, vent'anni fa, di Castro e Che Guevara - Sono loro i cervelli dell'organizzazione anticastrista o sono legati a Fidel? MIAMI — /( secondo giorno di gennaio verso le undici di sera c'è un'esplosione violenta nella sona Est di Manhattan. Subito dopo una o due esplosioni più piccole. Si sente il crepitare di vetri infranti in tutto l'isolato fra la Quinta Strada e la Madison Avenue. Si sentono le sirene della polizia e dei pompieri entro cinque o sei secondi. Una disgrazia, una fuga di gas, un incendio, pensano i newyorkesi, quasi tutte vecchie famiglie che hanno sempre abitato in questa zona riservata, elegante. Una bomba, pensano immediatamente gli europei, i sudamericani, gli asiatici, ì medio-orientali che, per una ragione o per l'altra, sono diventati gli abitanti di un quartiere extraterritoriale, una specie di Hong Kong nel mezzo dell'isola di Manhattan. Gli stranieri, esercitati dall'esperienza o dalla paura, hanno ragione. E'una bomba a alto potenziale, esplosa davanti al cancello di una palazzina di lusso, fra la Sessantasettesima Strada e il Central Park, dove ha sede l'ambasciata di Cuba alle Nazioni Unite. La facciata della palazzina (una di quelle case principio di secolo che sono l'orgoglio della New York «storica» e sembrano costruite con le scatole di legnetti dei bambini) è quasi distrutta. Lampeggiano le luci rosse di una ventina di automobili della polizia di New York, lampeggiano le luci gialle delle enormi autopompe, artificieri con il giubbotto antiproiettile si aggirano fra i detriti insieme a due o tre funzionari cubani, giovani, assonnati, uno con la giacca e la sciarpa sopra il pigiama, nella gelida notte newyorke¬ se. I cubani sembrano sconvolti ma non sono stupiti. La bomba è scoppiata nella Sessantasettesima Strada di New York fra Madison Avenue e il Central Park, esattamente vent'anni dopo, lo stesso giorno, la stessa ora, dell'ingresso di Fidel Castro, Che Guevara, Camillo Chanfuegos nel palazzo presidenziale dell'Avana, dal quale Fulgencio Batista era fuggito da appena ventiquattr'ore. Anche Roger Sanjenis (che allora non si chiamava Roger) era a Cuba, era con Castro quella notte, a quell'ora. Così lo mostra una fotografia che mi fa l'edere. C'è lui, in divisa da guerrigliero, che prende le consegne dell'ufficio di polizia dell'Avana. Nella fotografia Sanjenis ha la barba, e risponde col sorriso della vittoria al sorriso imbarazzato del poliziotto che gli sta cedendo il mitragliatore. L'uomo che mi sta di fronte ricorda il guerrigliero solo nel taglio della bocca. Ma il sorriso, adesso, è un sorriso furbo e in guardia, protetto da baffi grigi molto curati. Un uomo ben rasato, completamente calvo che sembra il padre del guerrigliero nella fotografia che tiene ancora sul tavolo. Il tavolo è in una casa confortevole, con qualcosa di anonimo, come se Roger Sanjenis fosse uno che vive nascosto, con qualcosa di provvisorio, come se lui e «la signora» fossero, per qualche ragione, pronti a partire. Il luogo è la Piccola Avana, un quartiere che è ormai la parte più viva di Miami, lungo l'intero persorso della Ottava Strada. Qui, mi hanno detto, vivono coloro che a Fidel Castro non perdoneranno mai. Uno o alcuni di loro hanno organizzato l'esplosione del due gennaio. Uno o al- o . i a e e cuni di loro sono ancora nell'ombra dei molti atti di violenza, di alcuni omicidi che hanno segnato la iuta americana nei due decenni della ■■caduta di Cuba». Dicono che gli ex castristi siano i più tenaci, i più irremovibili. Roger Sanjenis è uno di loro. Che cosa sa dell'esplosione di Capodanno? E pensa che il terrore sia sempre lo strumento per impedire «il tradimento» americano e la costruzione di un rapporto fra Stati Uniti e Cuba? Sanjenis ascolta con la pazienza degli esiliati che sanno di non essere mai capiti, un po' per la lingua, un po' per l'abitudine diversa di ragionare. Ha imparato a Miami che un rifugiato è sempre considerato un pericolo. Scuote la testa, e prima che cominci a parlare, prima che le pieghe intorno alla bocca, i gesti delle mani rivelino l'uomo latino, con la sua ironia e il suo disgusto, Sanjenis sembra in tutto e per tutto un businessman della vecchia Miami. Racconta come nei romanzi d'appendice, cominciando dal principio. ■■ Venti anni fa ero il maggiore Sergio Sanjenis...», pronuncia il suo nome forzando l'accento sull'ultima sillaba, come per insegnarmi. Non dirà, più avanti, nel corso della conversazione, perché adesso si chiama Roger. Con orgoglio si appoggia a una delle Rolls Royce del suo «centro di vendita» in Biscayne Boulevard. Ci sono venti Rolls Royce nel salone e «si vendono. Mi creda, si vendono», dice il maggiore, interrompendo la storia, cogliendo lo sguardo e la domanda non fatta. Gli importava molto, ho capito, die la conversazione avvenisse qui tra le sue automobili d'argento. A casa si sentiva in esilio. Qui comanda di nuovo. I venditori vengono a fargli siglare i contratti, le signorine lo chiamano con voci di velluto, e un vago accento spagnolo, da un altoparlante dietro la parete di vetro. Qui, per Sanjenis è il successo, l'America. Ma non la patria. La *erre» si affila nella bocca umida dell'ex maggiore quando dice questa parola, patria, come se masticasse qualcosa di duro e di amaro. Sergio Sanjenis racconta che il suo reparto è stato il primo a entrare all'Avana: «Non si dimentichi come vanno le cose nella storia. Io c'ero nella storia. Non ha vinto Castro. E' Batista che ha perso. I soldati di Batista ci mettevano ai piedi i loro fucili, la folla ci seguiva». Per quasi un anno e mezzo il maggiore è stato parte dell'armata rivoluzionaria, della polizia, dell'amministrazione, del governo. Uno dei barbudos, uno dei privilegiati della nuova rivoluzione. «Ma Raul Castro e Guevara avevano altri piani», abbassa la voce. Non dice che cosa ha bruscamente interrotto la sua carriera. Non dice che cosa lo ha insospettito o deluso. Il 13 aprile del 1960 è stato arrestato. Come accade alle persone anziane che rievocano vecchi episodi, ricorda il luogo, l'ora, com'era vestito, che cosa stava mangiando quando sono venuti a prenderlo. Ma della prigionia non racconta niente. Come nelle immagini di un ex-voto lo troviamo libero, lo troviamo a Miami. Sorride con quel tipo di bonarietà che, nel mondo latino, è tutt'altro che tranquillizzante. Dice con soffice decisione: «Certo, ho complottato. Ho sempre complottato». Si accorge che il suo sorriso non persuade. Cambia espressione e a voce ancora più bassa, confida: «Vede, io non sorrido mai. Questa faccia è stata costruita per i clienti. Io sorrido, loro comprano». Il resto della sua vita avviene lontano di qui, nella sua mente e nel cauto isolamento della sua vita famigliare. Di uomini come lui c'è chi sospetta che siano ancora legati a Castro, c'è chi è sicuro die sono al centro di una organizzazione anticastrista che è tutt'altro che smantellata. «Cercare in alto e cercare in basso. avvertono gli esperti. Ognuna di queste operazioni deve avere delle nienti abili, esperte e con buoni mezzi a disposizione. Ma deve anche avere i soldati». Roberto Jarro, per esempio. Ha cinquantasei anni capelli grìgi ben radicati nella fronte, e gli occhi un po' troppo rapidi, come se fosse di guardia. Eppure il mondo di Jarro in apparenza è ben limitato. Il mondo di Jarro, in America, è un ascensore. Impugna il manico della ruota d'ottone (si tratta di un vecchio ascensore) come se fosse lo strumento di una cosa che porta lontano, che richiede determinazione, energia. E' vero che ha preso parte alla Baia dei Porci? Allo sbarco? Alle azioni di guerriglia antiCastro nel centro dell'Isola? E' uno prudente, Roberto Jarro, e nel fortino del suo ascensore ha imparato che più tace più costringe i visitatori a parlare. Non si può andare su e giù in un ascensore più di una volta senza fare domande. E poiché Jarro stringe con forza la sua maniglia e ferma con precisione il suo ascensore al livello dei piani, bisogna per forza fare un po' di conversazione. Solo dopo si scalda. «Allora lei era all'Avana nel gennaio di quell'anno. Allora si ricorda quella fila lunga almeno un chilometro sotto le finestre dell'ambasciata americana». Gii dico che la ricordo. Era gente che si guardava intorno, si guardava le spalle, aveva il sogno impossibile di entrare nel portone, salire la scala, ricevere il visto, uscire, andare all'aeroporto e partire sema die nessuno se ne accorgesse. «Succede cosi quando il cielo ti cade in testa. In quella fila c'era tutta la mia famiglia. Una immensa famiglia». Jarro sembra orgoglioso della parola, «immensa», e contento di avere una simile riserva di argomenti. Sa come individuare il pericolo di un estraneo che fa all'improvviso domande. Potrebbe essere un agente, e chissà quale agente. Adesso ha capito che non c'è pericolo e che può buttare avanti troppe dozzine di aneddottì sulla famiglia, la moglie, ì bambini (li descrive nei particolari come erano allora, nel 1959). Ma non ha da offrire né un giudizio su Castro, né una parola su quello che fa adesso, ascensore a parte. «Sono stato fortunato», ripete. Non è timido, non abbassa lo sguardo. «Lei ha una bella casa, signor Jarro». Lo stupisce che qualcuno sappia dove lui abita. Ma sa restare tranquillo. «Non costavano troppo allora le case. Ho altri lavori. Siamo in tanti, qui, ad avere più di un lavoro». Anche Rolando Ambador ha due lavori. Spiritosamente sulla porta semiaperta del suo studio (è un sabato, è stato rintracciato per caso) annuncia: «Ho due lavori, una moglie un bambino e tre cani». Capisco che la frase gli piace (forse la usa spesso parlando in pubblico) perché nella conversazione la ripete più volte. I due lavori sono il suo studio di avvocato e il posto di «istruttore di spagnolo» in una scuola media di Miami. «Faccio anche il traduttore. Di documenti». Amador è un uomo elegante, con la faccia gradevole che sembra in qualche modo collegata al suo nome, come in certi romanzi. Nota l'attesa, dopo la sua ultima frase, e precisa: «Non mi fraintenda. Sono sempre stato amico di Castro. Siamo stati compagni di scuola. In un certo senso lo sono ancora, suo amico. Ma si può essere amici personali di un uomo che non ha più alcuna vita personale?». Rotando Amador ha fatto di tutto, in America, prima di tornare ad essere il Rolando Amador dell'Avana. Ha spazzato pavimenti, lavorato da operaio, studiato di notte. Sapeva l'inglese ma ha dovuto laurearsi da capo. Adesso ha due lauree. Una da avvocato, «ed è quella che paga». L'altra da insegnante di lingua spagnola, die lo autorizza a essere - traduttore di fiducia» anche per materiale delicato o segreto. Dell'Hidalgo, che deve essere stato il suo mito all'Avana, Amador ha conservato decisione e magrezza. Dall'America ha imparato le pubbliche relazioni. Sa di avere una bella faccia e la espone. Ma la sua faccia e la sua vita sono impenetrabili. I suoi frequenti viaggi sono «di lavoro», i documenti che traduce sono «cose commerciali». Fa entrare in una gran corsa i tre ceni in modo che la conversazione diventi impossibile. Jose Gonzales Puente, invece, benché abbia passato i 60 anni e sia sofferente di cuore, non dimentica di essere stato senatore della Repubblica di Batista. Avere un interlocutore, «rilasciare un'intervista» sembra farlo contento. «Vogliono un'intervista», sussurra alla moglie. «Stavo trascorrendo il Capodanno a Montreal, col progetto di andare a sciare, quando mi chiamano di not¬ te e mi dicono che Batista è scappato». Puente si guarda intorno come se ci fosse pubblico ad ascoltarlo. C'è solo la moglie che lo osserva ansiosa e paziente. Racconta una decisione «coraggiosa»; tornare subito a Cuba. Ma all'aeroporto di New York trova che il volo per l'Avana non ha più posti, vede una folla dì sostenitori di Castro che si imbarcano sventolando bandiere. Ci sono due posti per Miami. Puente e la moglie accettano il suggerimento di una hostess. Puente ricorda benissimo che era la National Airlines. Ma discute a lungo con la moglie sul numero del volo. Da allora è sempre rimasto in questa città «dove almeno fa caldo». Perché si sia fatto il suo nome negli elenchi della lotta anti-Castro, il senatore Puente dice, di «non essere nella libertà di confidarlo». «Naturalmente, aggiunge con orgoglio, sono un leader, in questa comunità». La voce si perde in una raucedine improvvisa che lo turba e lo irrita. La moglie informa sottovoce die «tutti lo chiamano senatore» e che loro sono grati all'America. Anche se l'America riconoscerà la Cuba di Fidel Castro e stabilirà regolari rapporti diplomatici? La signora tace e il senatore combatte con i pugni chiusi la tosse. Finalmente riesce a dire una frase tutta di seguito. «Ogni notte sogno di ritornare a Cuba e di morire. Invece non c'è speranza per noi. Non potremo mai ritornare a Cuba». Riprende la sua lotta contro la tosse, paziente, ostinato, come se fosse un lavoro. Furio Colombo Fidel Castro in una caricatura di Levine (Copyright N.Y. Rcview of Books. Opera Mundi e per l'Italia «La Stampa»)