I capitali europei verso New York di Ennio Caretto

I capitali europei verso New York UNA CITTA' CHE ATTIRA I capitali europei verso New York Nella rinascita di New York, il capitale straniero — arabo, europeo e giapponese innanzitutto — ha avuto un ruolo decisivo. Dal '75, poco più di un anno dopo la prima crisi del petrolio, esso vi è affluito con un impatto superiore a quello degli immigrati il secolo passato. Ha contribuito a rendere la città più cosmopolita e forte, strappandola a una decadenza erroneamente considerata inevitabile. «/ love New York —, proclama soddisfatto il sindaco Ed Koch — si dice in tutte le lingue della terra*. Ciò ha rovesciato l'opinione che i newyorchesi nutrivano, ad esempio dell'Italia. Come la Francia, la Germania e l'Inghilterra, l'Italia non manda più braccia ma know how e investimenti. Anche grazie ad essa, i newyorchesi si sentono cittadini del mondo, oltre che cittadini americani. Con piacere importano 'the European way of life», come custodiscono nei sotterranei blindati della Federai Reserve i lingotti d'oro dei signori del petrolio. Nessuno è più vicino di essi al ^vecchio mondo». Negli Anni Venti, i musicisti del jazz chiamavano New York •the big appiè», la grande mela, per indicare che non esisteva frutto più succoso, premio più ambito di essa. Negli Anni Ottanta, la finanza e l'industria e i commerci internazionali cooptano la definizione dallo «showbusiness». New York non è solo più il cuore della Borsa e il forziere dei nuovi ricchi, gli arabi: è anche la capitale delle banche, degli uffici di rappresentanza, delle fabbriche, del traffico aeronavale, del turismo. Questa nuova dignità, New York l'ha guadagnata lavorando «duro e berte». Nell'ultimo quinquennio, ha eretto le strutture necessarie a una vasta comunità straniera: agevolazioni fiscali, disponibilità di prestiti, tecnologie avanzate, personale preparato, traduttori e interpreti, t una mentalità «senza frontiere». Due organismi, l'Office of Economie Development e la Business Marketing Corporation, sono sorti per dare impulso alla città, rappresentano ì binari su cui corre la ripresa. A New York, gli arabi operano in modo diverso dagli europei e dai giapponesi. Essi investono soprattutto nella Borsa, nell'oro — i depositi della Federai Reserve sono i più grandi del mondo — nelle proprietà immobiliari e nelle imprese più sicure. Koch, che è ebreo e se ne compiace solo entro certi limiti, parla con apprensione di una «conquista dell'America». In realtà, gli investitori arabi non influiscono sulla conduzione in loco: si comportano come se tutti fossero beni rifugio. George Ball, l'ex sottosegretario di Stato democratico che capeggia ora una delle agenzie di Wall Street, definisce la penetrazione dei signori del petrolio nel mercato newyorchese «costante ma guardinga». Essi non hanno né gli uomini né i mezzi tecnici, osserva, per intervenire in prima persona. Evitano anche ogni pubblicità, per non dar luogo a reazioni osti¬ li della popolazione. Spesso si nascondono dietro prestanome o intermediari. La loro unica richiesta sembra un utile «vistoso e regolare». Europei e giapponesi si muovono invece aggressivamente e con fantasia. Kenneth S. Schuman, il presidente dell'Office of Economie Development, asserisce che essi controllano «la stragrande maggioranza delle 3000 e più aziende straniere di New York». Alla fine dello scorso anno, le aziende giapponesi erano 277, quelle inglesi 213, ie francesi 175, le svizzere 80, le tedesche 74, le svedesi 53, le olandesi 44 e le italiane 43. Seguivano l'Irlanda, il Canada, il Belgio, Israele e una ventina di altri Paesi. Secondo Schuman, le aziende straniere a New York danno lavoro a 140 mila persone, con un indotto di altre 25 mila, il cinque per cento della manodopera metro-, politana. E' esclusa naturalmente la comunità diplomatica dell'Orni, che comprende migliaia di membri. «Nella maggior parte—dice il presidente — si tratta di importexport, finanza e traffico, sia aereo che navale. Le fabbriche di manufatti sono relativamente poche, dalla Hermes Abrasives tedesca alla Colora Printing britannica». Ben il 42 per cento di queste 300 e più aziende si è installato a New York dal '75, e si prevede che il «boom» continuerà per il prossimo quinquennio. La crescita più sensibile è avvenuta nel settore bancario. A New York si contano ora 77 succursali di banche straniere, 66 agenzie locali, 166 rappresentanti. «E' la più grande concentrazione del genere al mondo — precisa Schuman — dovuta anche al fatto che sei dei dieci massimi istituti finanziari americani hanno qui il quartiere generale». La presenza straniera si articola in mille modi diversi. Il gruppo tedesco Frederick Group, ad esempio, ha acquistato una partecipazione al 19 per cento nella Grace and Co. per 255 milioni di dollari. La Thomas Tilling Ltd britannica ha aperto un ufficio investimenti, diretto da Colin Draper, che ha già speso 216 milioni di dollari nell'acquisto di compagnie in tutto il territorio Usa. L'Italia ha inaugurato nello stesso mese le sedi della San Paolo, della Ventana, della Cariplo e del Centro Commerciale. Schuman sostiene che l'attrattiva di New York deriva da almeno 4 fattori. «72 primo è la sua autorità come centro finanziario e commerciale. Il secondo è la sua centralità in un mercato di 80 milioni di persone, che va da Boston a Washington a Chicago. Il terso è la comodità dei suoi servizi, sia locali sia per gli stranieri specificatamente. Il quarto è l'interesse dei vari governi, che appoggiano i propri operatori, come l'Ice nel caso dell'Italia». A sostegno della sua tesi, il presidente dell'Office of Economie Development adduce alcune constatazioni. Il costo della manodopera cresce, proporzionalmente, meno a New York che nel resto degli Stati Uniti. L'atmosfera del- la città è internazionale: «Tutti si trovano a casa. Calcoliamo che gli italiani siano 250 mila, i tedeschi 100 mila e cosi i giapponesi, gli inglesi 50 mila». New York offre inoltre svaghi e avvenimenti culturali senza paragoni neppure con capitali come Parigi o Londra. Punti di forza della metropoli sono l'aeroporto Kennedy e il porto, da Brooklyn al New Jersey. Il presidente del consiglio di amministrazione della Business Marketing Corporation, Elliott Averett, sottolinea che il 40 per cento del cargo destinato agli Stati Uniti via aerea passa dal «Kennedy»: e che in quanto a volume di merci, il porto è il primo del Paese. Quest'ultimo ha due zone franche: l'ex cantiere di Brooklyn e Port Elizabeth, che dal '75 hanno ricevuto uno straordinario impulso. Persino il sindaco Koch, la cui caratteristica precipua non è certamente la modestia, ammette che la congiuntura internazionale ha aiutato New York, talora a danno delle altre città americane. «Abbiamo attirato il capitale di nazioni politicamente instabili — egli dichiara —, o di classi timorose del loro fisco, per esempio dall'Inghilterra e dall'Italia. Ci ha avvantaggiato persino la crisi del dollaro, il rialzo dell'oro e via di seguito. Neio York appare a molti stranieri una specie di santuario». Koch mette in risalto che «l'amministrazione cittadina si è impegnata a garantire lo sviluppo economico di New York, e continuerà a fornire incentivi per le compagnie manifatturiere». Ma la vera forza dei newyorchesi, ha aggiunto «è la dinamica del loro mercato». L'espansione straniera è una sua funzione. Cita il caso del nuovo centro assicurativo, modellato sui Lloyds di Londra, che consente risparmi nei premi. E promette altre innovazioni che facciano di New York la capitale del mondo. Per l'industria dei manufatti in particolare, l'Office of Economie Development si avvale non solo di grosse agevolazioni fiscali, ma della Economie Capital Corporation, che media per finanziamenti pubblici e privati. Un fondo governativo può contribuire sino al 25 per cento del costo degli impianti, e fino a un terzo di quello per ì corsi di apprendistato. Si tratta di prestiti vantaggiosi, concessi secondo un sistema di rotazione. E' una politica che ha bloccato l'emorragia delle industrie. La ripresa economica di New York non è senza effetti sul costume. Piace a Elliott Averett sorprendere i visitatori con statistiche inattese. La produttività dei newyorchesi è del 13 per cento superiore a quella media americana. I turisti sono 18 milioni l'anno e portano 2 miliardi e mezzo di dollari. Si pubblicano giornali in 45 lingue diverse. E sebbene la città sia violenta, i delitti sono meno frequenti che a Los Angeles e in sette altri centri urbani del Paese. Vi è motivo insomma «to love New York». Ennio Caretto