I romani nella Roma degli altri di Lidia Ravera

I romani nella Roma degli altri COME LA CAPITALE È STATA TRASFORMATA DALL'IMMIGRAZIONE I romani nella Roma degli altri Dicono: la città è rovinata, il bla-bla ha sostituito le canzoni, la gente l'hanno spinta nelle borgate Tra i nemici mettono inglesi, americani, tedeschi che invadono Trastevere e comprano «il clima con moneta forte» - Lo sbarco in massa degli intellettuali - Roberto Rossellini e il governo degli Stati Uniti ROMA — «Sono arrivato a Roma dal Sud, a diciassette anni. Roma mi sembrava la Mecca. Ci sono venuto perché era la capitale, l'epicentro della Vita Vera intesa come terremoto esistenziale». 'Io ci sono arrivato da Torino. Roma era un mito. A Roma tutto era permesso, ci sono arrivato dieci anni fa. Correvo come un matto. Volevo dimenticare la provincia». Adesso, i miei due amici non sono più un calabrese e un torinese, ma due romani d'acquisto. Fanno parte, cioè, di quella ampia fascia di pellegrini ormai stanziali, con residenza nel centro storico, vista sulle rovine, parlata scivolosa, crisi depressive sempre molto ridenti e moto mondane, pigrizia ansiosa e quasi frenetica ricerca di ralizzazione «artistica», «creativa» nel demimonde intellettual - cinema - televisivo o, variazione sul tema, politico - giornalistico. Contro di loro, calati nei primi anni Settanta e mai più ripartiti, si levano le lamentele dei «romani de Roma». Dicono: Roma è rovinata, si è imbastardita. Il bla-bla ha sostituito le canzoni. «Tutto dove te ggiri vedi 'sta borghesia illuminata che magna la bruschettà cor cortello, che non ci ha tradizioni ma parole». Altri nemici sono gli americani, etichetta che riunisce in un sol fascio inglesi, americani proprio e tedeschi, venuti a «portar le chiappe al sole», facendo lievitare il prezzo delle famose case nei famosi vicoli del famoso Trastevere (comprano il clima con moneta forte). «Ormai bisogna andare a prendere il caffè in Prati (ndr: quartiere ignoto ai più, non pittoresco, di strade larghe, modello Torino, alberi e centri commerciali). Campo de' fiori, piazza Navona sono i marciapiedi dell'Oriente nel senso peggiore. Pieni di modernismi, di banchetti dove si vendono polverine indiane... Sono bazaar, non piazze». Chi si lamenta è un romano assoluto, nato, canonicamente, una quarantina d'anni fa in un basso di via Giulia, di professione regista, attualmente residente ai Parioli, coniugato con una graziosa signora lombardo-austriaca. «Non vivo a piazza Navona o a Trastevere perché non posso permettermi di odiare Roma — dice —. Sarebbe come uno che va allo zoo e vuol ficcare le mani nella gabbia del leone. Gli animali li guardo, ma da lontano». — E non ci vai mai li, nella Roma storica e cartolinara? «Come no? Ci vado, quando piove. Primo perché Roma bagnata è bellissima si illumina tutta, guardi in terra e vedi le girandole; secondo perché quando piove gli in- vasori stanno a casa o al cinema e non si fan vedere». — E i romani? Se ne vanno in giro sotto la pioggia. «Guarda che se c'è qualcuno che va in giro sotto la pioggia quello è proprio il romano, perché sa che a Roma quel che conta non è il sole, è la qualità dell'aria... e poi niente lo fa correre: né l'ap- puntamento, né il lavoro, né il fatto che s'è messo a piovere. Il romano è negato per le nevrosi. Niente stress, la fretta gli scivola addosso...». Un censimento, infatti, ha stabilito che «a Roma si muore di meno». Sperando che la regola sia valida anche per i residenti nati altrove (cioè, io) passo a chiedergli un identikit di questo «romano puro» che. se devo giudicare dalla mia esperienza, è un esemplare vicino all'estinzione. «Non è né bello né brutto, né buono né cattivo, è, storicamente, sarcastico. Ragiona: sto poveraccio, è da sempre che ci ha la chiesa addosso, il Papa, i preti, il più schiacciante dei poteri... e come ha reagito? Essendo vigliacco e ironico. Vigliacco per non soccombere e ironico per salvarsi da quello che c'è di meschino nella vigliaccheria. E così è vissuto: edonista e sacrilego. Uno che fa comunella coi preti per far il peccato al prete. Uno che scappa e poi fa lo sberleffo contemporaneamente sfrontato e servile. Vedi: il calabrese è un calabrese, il napoletano è un napoletano. Il romano, invece, non è sempre uguale. E' semovente: la sua morale è "se il papà è buono siamo buoni, se il papà è cattivo siamo cattivi"... è un camaleonte». — Non mi sembra una descrizione lusinghiera. «Che c'entra? E' come è, ma è straordinario: avrebbe potuto diventare un arabetto tremolante, sgnaccato fra il Vaticano e il governo.... e invece è un personaggio allegro. Che litiga perché si diverte a litigare e lavora quando si diverte a lavorare. Che non emigra, che si arrangia, piuttosto. Pensa a mio fratello... ecco mio fratello è proprio un romano vero». — Che fa tuo fratello? « Traffica. Non in una cosa in particolare... traffica in tutto quello che gli capita. E ha un'inventiva, una creatività, in questo suo continuo trafficare cambiando sempre traffico, che si diverte coinè un matto, come un poeta o un romanziere. L'ultima volta che l'ho visto voleva brevettare un'iniezione». — Un'iniezione? «Sì, aveva inventato un'iniezione per far si chei polli sapessero di abbacchio. Mi ha detto: "A Giù, l'abbacchio com'è?". "Bono" dico io; "e il pollo come'è?" "na schifezza". "E allora vedi che ci ho ragione?". Insomma, voleva far iniezioni di gusto d'abbacchio ai polli ed esportare tutto in Inghilterra. Per fare i soldi ma anche perché gli sembrava brutto che esistesse al mondo tanta gente che non s'è mai fatta una costoletta d'abbacchio». — Perché il romano, infatti è anche egocentrico... voglio dire: ha il senso della capitale. E' sostanzialmente convinto di essere il meglio. «E' questo che lo salva, dall'essere un personaggio triste, angoscioso, come il traffichino napoletano, che tira a fregarti». Secondo lui. infatti, il «carpe diem» di stampo romano sarebbe una filosofia vincente, rilassata, lontana dall'emarginazione sociale o culturale dei «meridionali», estetizzante, ludica, antiproduttivistica nel senso del principio del piacere. E questo era senz'altro vero fino a trent'anni fa. quando, alla sera, nel suo rione, la gente tirava il tavolo per la cena fuori della porta di casa e il vicolo si trasformava in una pittoresca e collettiva sala da pranzo scoperchiata, e per tutto il vicolo, di mano in mano, passavano le bottiglie di vino. Certo allora non c'erano automobili, la gente abitava soprattutto al piano terra, la strada era una dépendance della casa, non c'era la televisione a incollare ciascuno dietro la sua porta chiusa, alla richiesta di piacere si rispondeva con canti vini e chiacchiere invece che con la breve solitudi¬ ne di un grammo di eroina... Ma soprattutto non c'era ancora stata la diaspora, la gente non era ancora stata cacciata dal quartiere, per finire nel rigido grigiore delle borgate. Il dubbio che il mio «romano de' Roma» accusi noi, immigrati intellettuali che fin dai tempi dell'ineffabile Arbasino intasano di speranze e teorie le vie della capitale, di aver indotto un movimento centrifugo ai nativi del centro storico, con la collaborazione degli americani, mi risulta quasi insopportabile. Sto per inveire, in difesa della nostra innocenza, quando mi rassicura. «A rovinare tutto è stato Mussolini. Quando s'è ripulito il centro, la gente l'hanno messa in quegli accampamenti di termiti che sono le borgate. Là si son dispersi. Intristiti. Incattiviti... forse l'odore di abbacchio e pecorino non era abbastanza imperiale, non s'addiceva alla facciata. In via Giulia c'è rimasta mia madre che ha 86 anni ed è abituata ad adattarsi a tutto, tanto che non se ne accorge neanche d'essere lei la mosca bianca adesso in mezzo alle femministe milanesi, agli inglesi, ai borghesi...». Sua madre, ormai, nel quartiere è un'istituzione. Saluta tutti e tutti la salutano. In lei rivive un'atmosfera da paese. La salutano i pochi, come lei, superstiti d'un altro tempo e d'un'altra cultura e i molti, innamorati di ciò che han conosciuto solo al cinema, che amano in lei il pittoresco: le sue spiritosate da «'mpunita», la sua vitalità un po' torva un po' sfacciata, ma mai lamentosa, mai borbottante. Sono tutti quelli che «il romano» l'han visto soprattutto al cinema. Nell'erotico sensualissimo Fellini («Roma»), nel piccolissimo borghese pavidissimo di Alberto Sordi, nei «Brutti sporchi e cattivi» pastasciuttari e assassini di Ettore Scola, nell'angelica impertinenza del ricciuto Ninetto Davoli e nel tragico-magico quotidiano di borgata di Pier Paolo Pasolini. Il mio interlocutore salva soltanto Pasolini, di quelli che gli cito, con tutto che era uno di «fuori», era uno che aveva «capito Roma sottoproletaria», ma Roma al cinema, dice, è soprattutto Roberto Rossellini, «Roma città aperta», per esempio. Ecco: Rossellini era un «romano de' Roma». Svagato e frenetico, attivissimo e pigro. All'operatore che gli chiedeva al mattino, appena arrivava sul set, «Doico' dove devo piazzare la macchina da presa?», pare che rispondesse, regolarmente, • 'Ndo te pare». Un giorno, mentre tornava dal Brasile, il suo aereo fece scalo a New York, prima di arrivare a Roma. Unico fra tutti, Rossellini si rifiutò di scendere a terra. A chi gli chiedeva il perché, rispose, serio: «JVon scendo perché non riconosco il governo degli Stati Uniti». «Hai capito?», commenta con gli occhi luccicanti il mio amico. «Io, Roberto Rossellini non riconosco il governo degli Stati Uniti, questo è il tignoso vero, matto e testardo, e surreale nelle sue mattane, il tipico romano». Lidia Ravera Un'immagine popolare: la bancarella con la porchetta