Il nichilismo fotografico di Wols

Il nichilismo fotografico di Wols Il nichilismo fotografico di Wols Definito il «pittore maledetto» degli Anni Trenta, visse in una costante ribellione, in una emarginazione voluta - Ma seppe tradurre la sua angoscia in dipinti e lastre che colpiscono come atti di violenza - Una esposizione a Milano MILANO — L'impeccabile snobismo «rétro» di attuali mostre contemporanee milanesi (tanto più impeccabile quanto più rigorosamente scientifico ne è il trattamento, la presentazione) schiera al Museo Poldi Pezzoli la Giacca femminile «1920 - 1925 c.» di Mariano Fortuny-Venise, in velluto stampato arancione scuro con motivi stampati in grigio perla, l'Uniforme di Ambasciatore del Regno d'Italia (al Vaticano, 1939) di Dino Alfieri, con «decorazione a spighe di grano intrecciate con rami di olivo e alternate al nodo sabaudo: in alto a sin. fascio littorio di passamaneria dorata applicato», etichetta Caraceni Roma-Paris-Milano; e schiera nella Sala delle Asse del Castello Sforzesco disegni e fotografie di arredi e mobili liberty di Eugenio Quarti, fra l'altro per Palazzo Castigioni a Milano, Di fronte a tutto questo, al Padiglione Arte Contemporanea, le fotografie degli Anni 30 di Wols (poderoso, bellissimo libro-catalogo di Laszlo Glozer edito in occasione della stessa mostra al Centre Pompidou, traduzione francese dell'edizione tedesca, Monaco 1978) aumentano, se possibile, il loro potenziale espressivo di nichilismo esistenziale, di esteticità dell'angoscia e dell'emarginazione. Wolfgang Schulze, morto a trentotto anni per autodi struzione alcoolica a Parigi nel 1951, ricevette, sembra, nel 1937 un telegramma dell'atelier Lanvln (a proposito del «Pavillon de l'Elegance» all'Expo universelle di Parigi) intestato a -Wols», di cui egli, secondo le più classiche pro¬ cedure dell'automatismo surrealista, fece golosamente uno pseudonimo che definitivamente esorcizzava, annichiliva l'ultimo legame nominativo con le radici famigliari. Con l'ombra amata-odiata, grande borghese e tedesca, del «geheime Rat dr. Alfred Schulze», cancelliere e direttore ministeriale della Sassonia, rotariano, appartenente all'ala destra della Volkspartei; con la contestata rifiutata felicità dell'infanzia fra Berlino e Dresda, con la pratica musicale in una casa frequentata dal grande violinista Busch, dall'etnologo Probeni us, da Kokoshka, da Dix. Era nato a Berlino nel 1913. «Dal 1913, il mondo non cessa mai di dimostrarmi che non è possibile alcun progresso né nella vita, né nelle scienze, né nei cuori e nei cervelli». Per lui e per la sua arte pittorica, Sartre parlò dell' «orrore universale dell'essere nel mondo». Già morto, e riconosciuta la sua mostra di olii nel 1947 da Drouin a Parigi come decisivo esordio e coagulo dell'«astrazione lirica» europea, di un'arte «altra», Werner Hofmann definì la sua vita 'l'esatta parabola dell'unico e autentico "pittore maledetto" della nostra epoca». Certo, fu il più autentico «deraciné» nell'ultima grande stagione di Parigi, di una tale disarmata coerenza da riuscire a mantenersi nell'ombra emarginata di un emigrato senza documenti, «fotografo ritrattista» clandestino, frequentando e fotografando la cerchia surrealista, il gruppo «Le Grand Jeu», 11 gruppo di agit-prop teatrale «Ottobre» di Prévert e Le Chanols, il venerato Artaud. Una coerenza a livello tragico. Internato nel 1939-40 in quanto di origine tedesca, si compiaceva di essere finalmente in una situazione «legale» in Francia, e con molto alcool a disposizione. Nel «campo», aveva tempo e voglia di tracciare quei disegni-acquerelli, fra l'ironia più straziata di Klee e gli automatismi incubici dei surrealisti (precorrenti in maniera folgorante il brulichio dell'.art brut» di Dubuffet), che i compagni di prigionia giudicavano inizialmente infantili; ma in seguito, con cautela psicologica molto significativa, gli proibirono di mostrarli. Piii tardi, Wols scrisse: «Ogni istante, ogni cosa nasconde l'eternità»; e anche: «/ migliori li ammazzano, e in modo assurdo. Gli interessati hanno l'onore di essere uccisi dalla società». Fornisce la lista: Baudelaire, Poe, Rimbaud, Lautréamont, Lecomte, Van Gogh, Modigliani, Artaud, Novalis, Mozart, Shelley. E lui stesso. Con un panorama «interno» di questo tipo, l'uscita dall'ombra nel 1947, l'essere divenuto suo malgrado un punto di riferimento di Saint - Germain - des - Prés, «assistito» da Sartre, da Simone de Beauvoir (conosceva già dall'anteguerra Juliette Greco, tramite Sonia Mosse), affrettarono la sua autodistruzione. A questa sua coerenza di fuga e di rifiuto, minacciata dall'essere riconosciuto addirittura «maestro» (ad esempio da un Mathieu), all'implacabilità del suo «occhio chirurgico» disintegratore di ogni maschera superficiale e intellettuale della realtà e della cultura — quell'occhio che egli fisicamente chiudeva quando si trattava di disegnare o dipingere —, fu concessa dopo la morte una fortuna, che evitò l'ulteriore omicidio critico di individuare nei dieci anni di attività fotografica la premessa concettuale, la «raccolta» di materiale per la «sublimazione artistica» pittorica. La riscoperta del suo materiale fotografico fu posteriore di un decennio al suo incasellamento nella vicenda dell'espressionismo astratto, d'altronde storicamente necessaria. Già passata la «moda» che aveva accademizzato ed edulcorato il pur eversivo fenomeno, già individuate le radici delle neoavanguardie, le fotografie di Wols poterono senza equivoci rivelare tutto il loro potenziale genuinamente nichilistico, il loro rifiuto di «formalità» e «artisticità» (rifiuto conscio, di chi aveva avuto a Berlino diretta esperienza del Bauhaus, di Moholy-Nagy, e a Parigi di Man Ray, di Brassal). I suoi «clochard» non sono «pittoreschi», sono veri cadaveri di chi ha scelto la morte civile; i suoi muraglioni e canali della Senna sono gli stessi dell'anarchico Vigo; i suoi autoritratti, numerosissimi, spesso di se stesso sotto l'effetto alcoolico, sono già integralmente comportamentali, ma senza nessuna «performance», nessun gioco in maschera di corpo-attore, nessuna «antropologia culturale»; i suoi manifesti slabbrati sui muri parigini non precorrono l'eleganza formale neodadaista dei «nouveaux réalistes», sono semmai, consciamente o inconsciamente, eredi per tradizione culturale «nazionale» del pattume del dadaista rivoluzionario Schwitters. • Solo forse le sue stupendamente mostruose, mirabilmente repellenti «nature morte», fotografate nel mondo povero e ristretto e universale di una delle sue stanze parigine, preannunciano la sfera disintegrata, atomizzata della sua pittura, le sevizie — tanto più efferate quanto più microscopiche — inferte all'idea stessa, organica, di natura. La preannunciano, e intanto, nel momento stesso in cui sono universalizzate dalla luce sadica di una lampada fotografica ricavata a mano da un bidone della spazzatura, smascherano l'intellettualismo estetico e missionario di qualsiasi «oggetto» surrealista. Un'ultima osservazione: la mostra fotografica, attualmente a Milano, verrà a Torino, a cura del Goethe Institut. presso la galleria «Martano» entro gennaio. Marco Rosei