Béjart alla corte del re Sole

Béjart alla corte del re Sole ALLA COMEDIE FRANgAISE IL PIÙ' AMBIZIOSO SPETTACOLO DELL'INVERNO Béjart alla corte del re Sole Il coreografo-regista ha ripreso una serata presentata da Molière a Versailles nel 1664: «I piaceri dell'isola incantata» Comprende tre «pièces» e dura quattro ore - Reinventate tutte le scene con musiche e danze - Emerge Luigi XIV, ora giovane di efebica bellezza, ora satiro saltellante, ora livido il volto di biacca - Ma tra Io splendore si intravede la decadenza DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE PARIGI — ..La mia regia preferita è sempre la prossima». Con questa battuta lapidaria Maurice Béjart ha risposto, alcuni giorni or sono, ad un giornalista francese che gli chiedeva ragione dei suo irrefrenabile attivismo. La domanda non era, per la verità, ingiustificata: nel corso della settimana passata, Béjart ha rimesso in scena un balletto e un'opera (Eros Thanatos, al parigino Théàtre des Champs-Elysées, il Don Giovanni di Mozart a Bruxelles) e ha firmato la regia del più ambizioso spettacolo di prosa, musica, dama dell'inverno teatrale, Les plaisirs de l'ile enchantée di Molière, realizzato alla Salle Richelieu dalla Comédie Francaise, in occasione del natale del suo tricentenario. Era, soprattutto, a questo ultimo spettacolo che si riferiva, un poco provocatoriamente, il collega giornalista. Che Béjart abbia allestito Molière, che un coreografo abbia messo in scena il loro massimo drammaturgo, è piaciuto poco ai francesi: ed ancor meno, che lo abbia fatto alla Comédie, nel tempio della loro tradizione teatrale. Ma andiamo con ordine, e diciamo intanto cosa sono questi moliereschi Plaisirs. Béjart, in suo appunto di lavoro, li ha definiti -una Woodstock del lusso secentesco». Fuor di metafora, si tratta di una festa d'eccezione offerta da Luigi XIV alla sua corte, nel verde di Versailles, per nove giorni filati, dal 7 al 16 maggio 1664. Il re di Francia aveva allora ventisei anni, era un giovane appassionato, amava la musica e la danza, recitava assai bene. Versailles era, a quel tempo, un castello di medie proporzioni, in via d'ingrandimento. Luigi, quel maggio, vi invitò una «piccola armata» di seicento ospiti, e tra loro c'erano danzatori, musici, c'erano Molière e i suoi attori. Su invito del sovrano, Molière corresse Le mariage force. una farsa in un atto allestita a gennaio, in modo da permettere al re di recitarvi, nella parte di un indovino egiziano; scrisse di getto La princesse d'Elide, una «pastorale galante» in versi e prosa; infine, col consenso del monarca, presenta agli invitati una «commedia contro gli ipocriti-. Le tartuffe. nella sua prima versione, che si conclude al terzo atto, col trionfo del «devoto». Dopo le feste del 1664, Les plaisirs non erano mai più stati allestiti. Con l'appoggio del nuovo «administrateur general» della Comédie, Jacques Toja, un attore ancor giovane e ambizioso, Béjart ha dissepolto i tre copioni, li ha ridotti, raccordati e riuniti in uno spettacolo che dura quattro ore esatte, intervallo compreso, e che vede impegnati, senza parlare dei tecnici, trenta attori, venti tra danzatori e figuranti, una decina di musici. Non ha compiuto una semplice operazione di «restauro archeologico» e neppure ha profuso a piene mani i suoi doni di creatore di balletti: ha «reinventato», col risultato di scontentare tutti (a quanto almeno è dato intuire, a poctie ore dalla prima ufficiale): il pubblico che sotto sotto avrebbe desiderato uno spettacolo «son et lumière», la critica indispettita dalle sue libertà e dal suo irriverente eclettismo. L'idea-base di Béjart è molto semplice: senza rendersene conto, con le sue tre commedie, Molière ha non solo interpretato, ma addirittura prefigurato l'involuzione del regno di Luigi XIV. Eccolo là, il giovane sovrano, a sipario appena levato, è un giovane attore-danzatore di efebica bellezza che si agghinda allo specchio, mentre intorno gli artigiani, con i loro martelli, sembrano montare una pedana. E' la pedana alta, solenne, della corte, che d'un tratto s'accampa ai nostri occhi, con le sue pareti rosso porpora, i gigli d'oro di Francia. Il re è lassù, ora, a fianco della regina madre, le dame e i cavalieri degradano a mazzi, bianche le vesti, bianche le maschere, i copricapi, i pennacchi. Sbucati dalla platea o scesi dal trapezio, gli attori di Molière recitano, con maschere di zanni e vistosi abiti a pezze multicolori, quel canovaccio di commedia dell'arte che è Le mariage force. Chi è forzato a sposarsi è Sganarelle. abbindolato, lui cinquantatreenne, dalle grazie di Dorimene e poi colto dal terrore di finire cornuto. Chi interpreta Dorimene è Marie Mancini, la nipote di Mazarino, di cui il giovane re è invaghito, le scrive tre lettere al giorno. Il re scende tra gli attori, conversa col pedante mentre costui si trucca, ginocchioni, dinanzi ella sua cesta, passa alla sua Dorìmene-Marie un'ennesima missiva, entra nell'azione nei panni di un mago egizio, piccolo ruolo d'attore dilettante. Ma c'è un altro mago che recita con molto, con troppo impegno la sua parte, sotto il suo manto di raso rosso, il viso coperto da un pannicello nero: a volto scoperto, è il cardinal Mazarino, dietro lui c'è un drappello di «devoti», esangui nelle loro livree nere. Ora il «forzato» a contrarre matrimonio è lui. Luigi, nel grande cielo buio di Versailles viene giù un arazzo che lo chiama a giuste nozze, niente la bruna, eccitante Marie, ma l'infante Marie-Thérèse d'Espagne, un puntolino biondo sgomento in una cascata di taffetà, una mano esangue tesa a quel marito che la guarda, appena, in tralice. A Versailles Le mariage durava una notte, nella Salle Richelieu è passata un'ora appena, ma è quanto basta per mettere molti a disagio. I più ottimisti pensano che ora, con La princesse d'Elide. che prevede addirittura sei intermezzi di danza. Béjart si sfogherà col balletto e così non potrà riservare altre sorprese. E invece lui, tanto per mettere le cose in chiaro, manda la sua orchestrina di flauti, violini e liuti a suonare in proscenio una giga di Lully che subito si tramuta in samba, il suo Tirsi pastore d'Arcadia ha sì il viso di polvere d'oro e le ali di libellula, ma veste una tutina «prèt-àporter», i varii principi pretendenti alla mano della schiva principessa del titolo si slacciano gli stupendi pepli azzurri, verdi, turchesi, restano in bei calzoncini di raso e la corsa dei carri, die sarebbe la loro gara di nozze, la fanno come bravi centometristi. Sconcertato da questo micmac, da questo guazzabuglio, il pubblico punta tutti gli occhi che ha sulla corte, che è di nuovo lassù, in abiti ora intinti in un verde acquitrinoso: e su re Luigi, che scende giù deciso e balla, in panni di satiro, la sua danza di seduzione della principessa, che in Arcadia fa la bella refrattaria, ma a Versailles è la sua amante vera, la bella La Vallière. Ma una luce come malata, verdastra anch'essa, irradia ormai questa commedia da boudoir, tra improbabili guerrieri in gonnella, ancelle in tunica, pastorelle procaci: quando i buffoni sbottano in battute salaci, i nobili scendono minacciosi; Luigi si traveste da orso, vagheggia ancora l'amata, ma la regina madre è alle sue spalle, lo bacia sulla bocca, lacera il fondale dipinto, un altro quadro d'occasione ne emerge, è il re in gran pompa con lo scettro in mano, precocemente obeso. Mentre un canto di chiesa spicca netto, severo. Luigi replica spavaldo, ma accigliato, agli amanti che inneggiano all'amore: «Non ho mai amato né mai amerò altri che me! ». Nell'intervallo i visi si fanno lunghi, qualcuno minaccia di uscire: ma poi nessuno osa tanto, spira nell'aria un soffio d'attrazione necrofila, un vago impulso masochistico tiene tutti legati alle sedie. Se con la commedia dell'arte e con la favola pastorale Béjart si è preso di queste libertà, cosa farà mai del Tartuffe? Di quale Tartuffe si tratta, tra l'altro, dal momento che la versione in tre atti, presentata per l'appunto nei Plaisirs. non ci è mai pervenuta ed ogni ricostruzione è arbitraria? Prendendo ancora una volta tutti di contropiede, Béjart di arbitri, con il testo, non ne commette nessuno: i tre atti sono quelli della versione definitiva, il suo Tartuffe è di una estrema severità, e, soprattutto, si incastra perfettamente nel meccanismo del « teatro-specchio della corte» sin qui montato. Livido il volto di biacca. Luigi XIV è in abito di raso e cuoio marrone scuro, ha intorno sei gentiluomini in cupa livrea e tricorno nero. Sotto la pedana, spoglia di qualunque ornamento, i tubi neri che la reggono a vista (la sposteranno, per tutto il secondo tempo, gli attrezzisti del teatro, anch'essi in nero) si recita Tartuffe. Madama Pernelle, la suocera tiranna di quella casa soffocante, scatena la sua terribile requisitoria ai famigliari che replicano da sotto un gran velo nero, tenu¬ to su a fatica a braccia alzate: e quando costoro, l'uno dopo l'altro, lentamente se ne liberano, è lei volontariamente a entrarvi sotto, insieme a quattro ancelle monacali, quattro nere prefiche in cuffia bianca. Con loro esce, a dispetto, ma solo per salire lentamente quella vuota gradinata: ecco chi è Pernelle, è Madama De Maintenon, la spietata direttrice di coscienza del re adulto. Quando lei arriva lassù, i nobili girano le spalle al teatro, loro hanno già scelto da che parte stare. In basso, invece, in casa di Orgon, ognuno sta facendo le sue scelte: e Béjart — si capisce — non esita a dare un rilievo d'eccezione alle posizioni «libertine» del cognato Cleonte, alla sana empiria della fantesca Dorine: un rilievo polemico, di continuo represso dalle irruzioni, dall'alto, dei «devoti», di corte, die ora non sono più le incerte, goffe figurine di bigotti che guastano le buffonerie del Mariage, ma statuarie figure poliziesche. Orgon, del resto, non è tanto il marito cieco che la più ovvia tradizione scenica ci consegna, ma un ispirato pervaso da trasalimenti celestia¬ li, da estasi sospirose; e Tartuffe è un San Vincenzo de' Paoli (per citare uno dei nemici «veri» di Molière) di ghiacciata trasparenza, non guarda mai le sue vittime, recita solo con gli occhi, fissando nel vuoto o guardando penitenzialmente l'assito. Adesso la Maintenon e Luigi sono scesi dalla loro scalea e se ne stanno, seduti su due piccoli sgabelli, ai piedi della pedana in parallelo agli attori. Che bisogno c'è ormai della corte quando ciò che si dibatte a corte è quanto si discute tra quelle livide pareti domestiche? Che bisogno c'è di cortei trionfali quando il trionfo lo raccoglie già lui, Tartuffe, nominato erede universale dal marito, dall'ospite, dall'amico che ha appena tradito? E, difatti, quei tre atti monchi si concludono con una lugubre processione: la Maintenon spinge innanzi su una primordiale carrozzella un re gottoso ridotto ormai a fantoccio, dietro a lei, impettiti, devoti e devote. Cala dall'alto un tripudio di ritratti d'occasione del re, il re in panni romani, il re a cavallo, il re nel suo cabinet. Di nuovo Versailles risplende sulla pedana in un clangore di tinte, ■ il re è da capo l'aitante giovinetto che ha assistito ai suoi Plaisirs. Ma è quello davvero, quello che ride, sprezzante, di noi che abbiamo creduto, forse troppo, alla finzione, che ci siamo immedesimati, o è quella gibbuta sagoma che sopravvive alla sua epoca, alla sua gloria trascorse? In sala ora applaudono forte, chi dice che è tutto merito degli attori, che con talenti come quelli di Michel Aumont, di Michel Duchaussoy, di Geneviève Cosile, dì Catherine Samie, per citare solo i nomi dei più illustri «sociétaires», è difficile fallire. E' indubbio, ma resta di fatto che questo è uno spettacolo in crescendo, e che in questa «crescita» afferma la sua fondamentale coerenza. Non è questo tutto merito di Béjart? Guido Davico Bonino Il commediografo Molière in una vecchia stampa

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