Malaparte a Capri di Vittorio Gorresio

Malaparte a Capri RICORDANDO L* « ARCIT ALI ANO » Malaparte a Capri L'arcitaìiano Curzio Malaparte, nato Kurt Erich Suckert, è tornato di moda. Lo ha rilanciato Giordano Bruno Guerri con un'esauriente biografia (recentemente apparsa da Bompiani e presentata esaurientemente su «Tuttolibri»); e sta per uscire presso la Edicoop un altro piccolo volume .intitolato «Schiava di Malaparte», dovuto a Biancamaria Fabbri, la quale sui vent'anni si innamorò di lui e gli fu vicina tra il 1951 e il 1953, sentimentalmente legata a quell'uomo «famoso e affascinante. Come resistergli?*, giustifica adesso Biancamaria la sua trascorsa passione. Ho letto il manoscritto «Schiava di Malaparte», e il titolo mi piace. Corrisponde allo spirito del testo, illustra bene quella antica vicenda d'amore tra una ragazza di diciannove anni e un uomo di cinquantatré che la chiamava cianfrugliona, e vale a dire pasticciona, una parola che di solito in Toscana si dice affettuosamente dei bambini. E lei? Lei si riconosceva schiava, totalmente: «Schiava volontaria, ma schiava. Del resto Malaparte, contrariamente a quel che si legge, era un uomo fedelissimo. In tre anni non mi ha tradito mai», ha raccontato Biancamaria ad Ignazio Mormino. Di suo, peraltro, «era gelosissimo». «Schiava di Malaparte», titolo quasi salgariano, è un libretto che tiene fede alla promessa contenuta nell'enunciazione: Biancamaria vi parla molto di se stessa dandoci un diario che è più autobiografico che non ritratto del personaggio eroe. Ha pertanto interesse come racconto di vita, bilancio dell'esistenza di una donna, e il suo valore è principalmente di contributo di testimonianza per chi voglia scavare nella conoscenza intima di Malaparte. Nella memoria a me è rimasto come uno sbruffone, un termine col quale si indica a Roma un certo tipo di vanaglorioso che si fa bello di poteri e virtù che non gli spettano. Si.dava l'aria di essere al centro del mondo, ma era chiaro che le sue esibizioni erano solo il frutto di una sua fondamentale e irrimediabile insicurezza Continuava a sentirsi emarginato, lui che pure per tanti versi era sempre stato baciato dalla sorte, cosi che il suo comportamento di sbruffone mi appariva piuttosto una protesta contro quello che riteneva un non completo riconoscimento delle sue doti e qualità. ★ * Si considerava un incompreso, e la sua infelicità è in qualche modo — fatti tutti i rapporti e stabilite tutte le proporzioni — da paragonare a quella di Prezzolini quale emerge dai due grossi volumi del suo Diario pubblicati da Rusconi. Tutti e due superiori all'Italia misconoscente, come se l'uno e l'altro non fossero arcitaliani nel senso vero della parola, e cioè sublimati rappresentanti di una determinata cultura dalla quale vanamente pretendono «chiamarsi fuori», come suol dirsi. Io mi ricordo Malaparte a Capri che mi parlava sulla piazzetta fra i tavolini del caffè Vuotto di un suo storico incontro con Togliatti andato a fargli visita in primavera del 1944 nella bellissima villa che egli si era costruito in località Capo Massullo dominante il braccio di mare tra l'isola e il promon torio sorrentino. Il suo racconto tendeva a farmi credere che arrivato dalla Russia il capo del pei aveva avuto come primo proposito quello di conoscere il più grande scrittore italiano vivente. Mi descriveva Togliatti come un timido pellegrino giunto da lontano, piccolo, vestito di grigio, modesto, che si avanzava con discrezione sul pavimento «lastricato ad opus incertum come la via Ap pia» del vastissimo salone della villa. «Erano i tempi pasquali, e se conilo l'uso napoletano tenevo in casa un agnello che si stru sciava amorevolmente alle gam he del visitatore». Pare che Togliatti ne fosse intenerito, ma soprattutto intimidito da Malaparte il quale procedeva a riceverlo. «Lo accompagnai mi disse stando in piedi fra tavolini del caffè Vuotto nella mia biblioteca, e là ebbi una prima sorpresa. Guardando le pareti dove erano appesi alcu ni quadri della scuola moderna francese e dell'impressionismo europeo (un Dufy, un Matisse, un Delaunay, un Kokoschka, alcuni De Pisis e un paio di De Chirico) Togliatti fece: "Ah, ah, un Dufy! "». «Ora — mi disse Malaparte j— un capo comunista che rico nosce un Dufy a trenta passi di distanza può ben essere un mostro capace di spaventare la borghesia. Io ne rimasi incantato. Pensavo che la sua cultura non differisse molto da quella dei capi comunisti, cioè si riducesse alla conoscenza di qualche problema sociale, e fui sorpreso di sentirlo parlare con competenza di problemi letterari, di questioni riguardanti lo spirito e delle varie posizioni assunte dagli intellettuali d'Europa». Togliatti poi gli domandò se conoscesse la città di Smolensk, in Russia: era veramente bella come si diceva? Peccato che fosse stata completamente distrutta dai tedeschi: «Peccato — disse Togliatti —, Stendhal nei suoi ricordi scrive che le due città più belle d'Europa erano per lui Firenze e Smolensk». E Malaparte a me sulla piazzetta di Capri: «Decisamente questo comunista stendhaliano finì per conquistarmi». Mi disse anche che in memoria di quell'incontro culturale rivelatore adesso lui, Malaparte, teneva a Capri sera per sera seminari di marxismo riservati a barcaioli e vetturini, camerieri e facchini d'albergo: «Vieni ad assistervi», cortesemente mi invitò, ma non potei andarci mai perché quei corsi di marxismo a Capri non esistevano che nella fantasia del Malaparte bugiardo, che era il più vero. Del resto Malaparte, e sia detto a suo onore, non le mandava tutte buone a Togliatti. Il giorno che il pei dette il suo voto a favore dell'articolo 7 che introduceva i Patti Lateranensi nella Costituzione della Repubblica, incontratomi a un tavolo del caffè Rosati in via Veneto a Roma mi recitò l'inizio di una sua cantilena che poi sarebbe apparsa tra i vari inni, satire e epigrammi del suo volume 11 battibecco: «Ahi, la colpa è an che tua, Palmiro mio I se l'Italia è tornata in mano ai frati I e se non gli elettori, ma il buon Dio I come, in Conclave, elegge i deputati». Gli sarebbe piaciuto che lo avessi fatto pubblicare su La Stampa, e rispondendo a qualche mia riserva mi accusò di non essere abbastanza anticlericale quale egli invece si vantava di essere veracemente Questo però non gli impedì quando venne in punto di morte, di barcamenarsi nel miglio¬ re dei modi, da vero arcitaliano, fra il partito comunista e la Compagnia di Gesù. Chiese ad un tempo la tessera e il battesimo, e si compiacque ad atteggiarsi come Buonconte da Montefeltro (Dante, Purgatorio, V, 106) attorno al quale entrano in disputa l'angelo di Dio e l'angelo del demonio per deportarsene «l'eterno». Togliatti fece pubblicare su Rinascita la professione di fede comunista dichiarata da Mala-, parte, il quale fra l'altro si appellava al fatto di essere stato a balia presso una famiglia contadina come dimostrazione della propria personale estrazione proletaria; e sul fronte opposto padre Domenico Mondrone, critico letterario della rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica, dedicò dieci pagine del quaderno 2571 per illustrare il significato del ritorno di Malaparte nel grembo della Chiesa cattolica. In un'anticamera della clinica romana Sanatrix dove Malaparte stava morendo al principio dell'estate 1957 io ne parlai con don Mondrone che era venuto, come me, a fargli visita. Il gesuita mi disse che bisognava rifarsi a Sant'Agostino, il santo di Tagaste che apre la via a Manzoni, e di Manzoni mi indice i personaggi paragonabili a Malaparte in lotta con la morte: non certo don Rodrigo né il conte Attilio ma preferibilmente l'Innominato: «Incredibile, a che cosa la grazia sa ridurre un uomo dal momento che questo non le oppone più ostacoli e se ne lascia invadere». Insomma, Malaparte come l'Innominato; e non starò qui a discutere circa i trionfi cui è avvezza la fede. Mi basta, nel momento del revival di Malaparte, dar conto della sua eccelsa qualità di arcitaliano che contraffacendo una sentenza di Dante è stata quella di cercare di essere «a Dio piacente ed ai rumici sui». Vittorio Gorresio