E la «donna crisi» diventò prosperosa di Luciano Curino

E la «donna crisi» diventò prosperosa LA MODA ITALIANA NEL PERIODO FASCISTA IN UNA MOSTRA A MILANO E la «donna crisi» diventò prosperosa Al museo Poldi Pezzoli sono esposti abiti femminili lussuosi, fatali, e il guardaroba (anche ìntimo) di Gabriele d'Annunzio - Come vestivano commesse, dattilografe e la «signorina Grandi Firme» - I ragazzi con i calzoni corti o alla zuava e l'eleganza virile tipica del «gangster» - Farinacci sequestrò una rivista con modelli francesi DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE MILANO — La moda femminile veniva da Parigi e quella maschile da Londra. Finché Mussolini ordinò che dovesse essere «italiana». E un paladino della moda italiana fu Farinacci, che fece sequestrare un numero della rivista Vita Femminile indisciplinata, avendo pubblicato otto fotografie di modelli francesi. «1922-1943: vent'anni di moda italiana., è la bella mostra al museo Poldi Pezzoli. Ci apre il guardaroba di pochi italiani di allora: quelli ricchi e raffinati. Cose rare, strabilianti. Piume di struzzo, rasi e velluti di seta, tessuti laminati, volpi argentate. L'abito per cerimonia a Corte, la vestaglia-kimono, la «amazzone» in tre pezzi. Una veste da camera in seta viola, ricamata di ananassi in fili d'oro e d'argento. Gli abiti paillettes che, nota la rivista. Lidel nel numero di Natale 1926. «godono ancora molta simpatia e nessuna donna bionda saprà resistere alla tentazione di indossare un vestito di paglietta nera-. E poi, anche l'uniforme del conte ambasciatore Dino Alfieri tagliata da Caraceni e il guardaroba di D'Annunzio, con i suoi pigiami e le ghette e le bretelle, perfino le mutande di taffetà di seta con bottoni madreperla e il monogramma ricamato "G. d'A." con corona gentilizia. Più di trecento «pezzi» cosi, davvero degni delle pagine di Vogue e di Harper's Bazaar e delle vetrine di un museo. Andando tra le vetrine, uno pensa a quello che manca a questa mostra del «come vestivamo nel ventennio». Manca quel «quotidiano» di cui era intessuta la storia di tutti. Mancano gli abitucci di ogni giorno della stragrande maggioranza degli italiani. Al Poldi Pezzoli, tra vestiti da cronache sofisticate di grandi sfilate mondane, si cercano lontani, cari ricordi. Il grembiule nero con il collettino bianco alla «carletta» delle commesse dei grandi magazzini. La camicia del padre, con il colletto rigido, di celluloide, e tribolava per inf i- larvi il bottone dorato. Il vestito della festa per fare bella figura, e quello portato finché non ne poteva più e poi rivoltato. E il soprabito del fratello veniva riciclato, diventando un tailleur della sorella. Avvenivano altre trasformazioni: il gatto diventava visone e il coniglio nobilitato col nome lapin. Tra gli abiti lussuosi e fatali del Museo affiorano vecchi ricordi. Le ragazze con gonna e bolerino come Deanna Durbin andavano in bicicletta con la reticella salvasottana. Per i loro vestiti le ragazze si ispiravano anche ai film con Assia Noris e Alida Valli. Lo spezzato con pantaloni bianchi esprimeva l'immagine dell'eleganza virile tipica del gangster (dai film di James Cagney). Nazzari lanciava le giacche di tipo sahariano. La spallina della sottoveste o del reggiseno che si intravedeva per la manica troppo corta della dattilografa accendeva l'immaginazione. E molte ragazze i vestiti se li facevano copiando i modelli disegnati da Brunetta o tagliandoli sui modelli in carta allegati alle riviste femminili. Ragazzi già molto cresciuti e con gambe nerborute come quelle di un centravanti avevano ancora calzoni corti. Nella foto-ricordo di una classe ginnasiale si vede di tutto: brache corte, pantaloni alla zuava e quelli lunghi, tutti assieme nel gruppo. Tutti i ragazzi hanno la giacca, che per lo più è un doppiopetto. Sandali traforati e calzette che arrivano alla caviglia. Quelli più eleganti hanno cravatta con nodo Scappino: gli altri, più sportivi, hanno il colletto della camicia «alla Robespierre», aperto e rivoltato sul collo della giacca. Cinque anni di guerra (dapprima il razionamento con i «punti» che concedevano un solo vestito all'anno, poi nemmeno più quello, ma niente del tutto) hanno consumato queste testimonianze minori della moda del «ventennio». E molte «sono state bruciate e distrutte anche perché recavano con sé troppi tragici segni, troppi ricordi dolorosi-, dicono le organizzatrici della mostra: Clelia Alberici, direttrice della Raccolta d'Arte Applicata. Alessandra Mottola Molfino. direttrice del Mu¬ seo Poldi Pezzoli. e Grazietta Butazzi. storica della moda e curatrice del settore costumi dei Musei Civici di Milano. -Per questa mostra abbia mo scelto il periodo fascista, dice Grazietta Butazzi, perché durante quegli anni si cercò di emancipare la moda italiana dall'influenza francese I sarti furono sollecitati a cercare fonti di ispirazione nostrana per i loro modelli. E furono tanto creativi da avviare un'attività die, nel dopoguerra, portò al trionfo della moda italiana». La donna fatale, languida e misteriosa, tipo cavalla stanca, del 1920, è resa fuori moda dal fox trot del 1922 e dal charleston del 1926. La -donna crisi-, come viene definita la donna alta e slanciata e senza petto (il giornale femminile Lidel parla di -sardelle appiattite-) privilegiata dalla moda dopo la crisi economica del '29, diventa per la propaganda fascista un obiettivo da colpire e da annullare. -Le signore che si ribellano contro la sciocca mania del dimagramento sono anch'esse delle crociate, quelle che porteranno la donna a raggiunge¬ re il vero scopo della vita, quello per cui è stata creata la maternità- scrive Rina Simonetta su Per voi Signora nel 1933. E' una fioritura di grazie femminili, riemergono curve, fianchi accentuati e se no florido. Sono gli anni della prosperosa -signorina Grandi Firme- e della canzone Regi nella campagnola. Ma l'industria tessile è in crisi e il fascismo cerca di incrementare i consumi. Sicché, negli Anni Trenta, la donna italiana è presa tra due fuochi: da un lato, il condiziona mento politico che la vuole -sana fattrice di eroi-, libera da frivolezza e vanità; dall'altro, il condizionamento eco nomico. che la richiama al do vere patriottico di consumare moda, ma che siano però tessuti e modelli e accessori ita liani. Anzi, si sottolinea, ita lianissimi. E come deve vestire la donna italianissima? Di idee ai figurinisti di moda ne dà Elvio Fenoglio su Per voi Signora, e tra l'altro scrive: -La fidanzata, che ha negli occhi una la'crima per l'Amore che lontano getta la sua vita allo sbaraglio per la grandezza della nostra Terra, la vorremmo vestita con un succinto abito azzurro, che un piccolo collaretto di pizzo di Cantù rendesse puro e lieve a un tempo-. I figurinisti ignorano i suggerimenti del Fenoglio. fanno di testa loro e sono geniali. Poi viene la guerra, le gonne salgono sopra il ginocchio e le maniche si accorciano per risparmiare tessuto, la Corporazione dell'Abbigliamento proibisce lo strascico degli abiti per sera e per nozze, le giacche a doppio petto, i calzoni lunghi e alla zuava per i ragazzi. Questo per i primi due anni della guerra. Poi le proibizioni diventano inutili, perché non c'è più nulla. Le rubriche di moda insegnano come utilizzare vecchie calze per ricavare guanti, disfare costumi da bagno di lana per fare sciarpe. E dalle ruote delle auto ferme, perché senza benzina, si tolgono i copertoni per ritagliarvi la risuolatura delle scarpe. Luciano Curino PIOGGIA .... A NC IppSSOKf^^ IMPERMEABILI SI TRO\àPfeESS0i Èfc- PIAZZA CASTELLÒ:.!Ì: Un manifesto pubblicitario durante il fascismo dice: «A chi la pioggia a noi!»

Luoghi citati: Cantù, Londra, Milano, Parigi