Cecchi offre un Anfitrione di rude scorza popolaresca

Cecchi offre un Anfitrione di rude scorza popolaresca Molière al Gobetti col Granteatro Cecchi offre un Anfitrione di rude scorza popolaresca TORINO — C'è, al centro e in fondo al palcoscenico, nell'allestimento ùeXL'Anfitrione di Molière proposto dall'altra sera al Gobetti dalla compagnia Il Granteatro, regìa di Carlo Cecchi, un bianco palazzo romano, greve di colonne, le occhiaie vuote delle finestre squadrate. Sembra un mausoleo, se non fosse che è tagliato, orizzontalmente, da un bianco velario. Ecco cos'è, un teatro, dentro il teatro che l'ospita. Anzi è del teatro lo spettrale sarcofago. Ci sono tanti piani di lettura, si capisce, di questo splendidamente malinconico Anfitrione, scritto da un Molière atrabiliare, spedito dal suo medico in campagna, a Auteil, e costretto a bere latte, mentre gli amici che gli fanno visita, Boileau, La Pontaine gli scolano sotto il naso vino novello, quel vino di cui, forse non a caso, si parla ossessivamente nella commedia. Lo si può leggere, dicevo, attraverso varie antitesi (perché questa, per definizione, è la commedia della duplicità): l'antitesi potere-amore, quella amor coniugale-amor adultero, quella verità-verisimiglianza, quella identità-alienazione. Mi esìmo, ovviamente, dallo spiegarle, perché sarebbe un andar fuori tema: e dico, per restarci, che Cecchi di queste antitesi ha fatto deliberatamente piazza pulita, le ha spazzate via con quel fare sbrigativo e ribaldo che solum è suo, e ne ha fatto la commedia della finzione sbudellata e messa a nudo, come sopra un tavolo operatorio. A ridirlo in parole povere: quegli dei e generali e nobili dame e servi e serve, presi alla trappola dal ben noto imbroglio infame che li atterrisce, attoniti una e due e tre volte da un mistero inaudito, paralizzati dall'atroce imbarazzo, istoliditi dall'amnesia, altri non sono che attori alla pania del loro mestiere: e l'imbroglio, il mistero, l'imbarazzo, l'amnesia è semplicemente il far teatro, che in questo testo stizzoso e diabolico celebra la sua poetica e qui fa testamento. E' una lettura di Anfitrione lucida, radicale, terribile: e difficilissima da tradurre, con piena coerenza, in interpretazione. Soprattutto perché — se questo è quanto Molière volle realmente affidare alla sua commedia, cioè il teatro e il suo smascheramento, al tempo stesso — il progetto molieriano va di continuo rapportato al progetto del Cecchi, attore coerentissimo, non da ieri: che cioè smascherare il teatro equivale a restituirne la sua sottoscorza popolaresca, la sua ruvida asprigna polpa. Il doppio salto mortale riesce agli attori che fanno ruoli popolari, già nella partitura originaria: il Cecchi, che sigla un Mercurio da quadrivio e angiporto, bordelloso e sbrindellato di parola e movenza, con quel vezzo bellissimo di restituire la parola biascicata e franta; il Morra, che si crogiola in un Sosia di secolare stanchezza e fiaccata ebetudine e masochistico malcontento; e Corallina Viviani, tanto nomine, che sfoga in rabbie inerti il suo magone di serva-moglie malcoperta. Ma gli altri tre, che popolari non sono, intendo dire di ruolo, che quindi guitti non possono farsi, a prezzo neppure di scomposizioni e ricomposizioni di terzo grado, nell'ambizioso progetto di cui sopra non c'entrano. Così il Graziosi, che è di suo attore molto fine, può tutt'al più contenere in ironica bonomia le tradizionali virulenze del generalissimo Anfitrione; il Cantarelli stemperare in leggero sarcasmo la prosopopea del suo Giove tuttoletto; e quella che è più in difficoltà è la Gori, impedita da un'Alcmena virtuosa sin dall'origine e da un delizioso visino Montespan d'epoca. Allestimento dunque riuscito a metà, e a metà applaudito, a Gobetti gremito, cioè con calore ma senza convinzione. Guido Davico Bonino

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