Esplorando le tracce di un Dio scomparso di Gianni Vattimo

Esplorando le tracce di un Dio scomparso IL NUOVO SAGGIO DI QUINZIO Esplorando le tracce di un Dio scomparso E' vero, almeno cosi pare, che il pensiero laico è molto meno aggressivo e sicuro di sé, molto meno sprezzante dei pregiudizi e nostalgie religiosi di quanto non fosse, poniamo, negli Anni Cinquanta e Sessanta. Tutti i discorsi sulla crisi della razionalità moderna, sia nei suoi esiti pratico-politici (dallo scacco della pianificazione ai risultati perversi delle rivoluzioni, alla scoperta dei «limiti dello sviluppo»), sia, di riflesso, nelle sue certezze teoriche, fanno apparire assai meno trionfale il cammino del pensiero «emancipato» (dalle dipendenze religiose) verso la finale liberazione dell'uomo. Ma sarebbe un errore pensare che, di conseguenza, si apra così la strada verso un nuovo possibile trionfalismo religioso, e specificamente cattolico, analogo a quello che caratterizzava la cultura cattolica italiana degli Anni Cinquanta. Questo errore, invece, è per l'appunto quello che commette oggi una parte — non minoritaria — della cultura cattolica, incoraggiata dalla nuova popolarità che i suoi simboli incontrano tra le masse (le folle che si raccolgono intorno al Papa), popolarità che sembra dipendere dalla rinnovata franchezza con cui la Chiesa annuncia il proprio messaggio anche negli aspetti più tradizionalmente impopolari, come la morale sessuale (è vero che, di contro alla durezza dottrinale del Papa e dei vescovi, sta — anche questo conforme alla tradizione — un atteggiamento ben più tollerante dei confessori). Tuttavia se alla rinnovata sensibilità religiosa, o comunque alla più consapevole problematicità della cultura laica, il pensiero religioso risponde con questa nuova sicurezza e con questo neotrionfalismo, non risultano aperte nuove vie di dialogo; il trionfalismo può avere al massimo una funzione di consolidamento interno alla Chiesa, con effetti essenzialmente politici, almeno in senso largo. Non è però mostrando la propria ricchezza e sicurezza contro la problematicità del pensiero laico che il pensiero religioso potrà rappresentare un appello valido e un interlocutore significativo; e ciò, anzitutto, perché probabilmente un pensiero forte e sicuro di sé non è affatto, mai, un pensiero religioso, bensì solo una forma di rassicurazione secolarizzata, politica, superstiziosa. Soltanto facendosi poveri con i poveri, ha insegnato Gesù, si può essere davvero loro fratelli. E non solo: la povertà predicata e praticata da Gesù non è una pura finzione strumentale, necessaria per farsi ascoltare dai poveri; potrebbe significare che uno degli esiti dell'esperienza religiosa è, non solo provvisoriamente, la povertà, la lontananza dalle regioni forti e luminose del mondo, l'incontro con il niente. Dio, secondo il cristianesimo, entra nella storia facendosi povero; ma il colmo della povertà è per l'appunto il «morire», sparire restando solo un ricordo e una traccia; così come è traccia la Sacra Scrittura, le cui parole, nella ripetizione rituale che ne ha fatto la tradizione, si sono consumate, e proprio questo era il loro destino. C'è dunque un senso in cui la progressiva scomparsa di Dio dalla storia e la perdita della dimensione religiosa possono essere essi stessi fatti religiosi, un aspetto della esperienza della fede. Con un pensiero religioso che, anche senza arrivare a queste conclusioni, sia però aperto alle loro ragioni, il pensiero laico può utilmente, e non solo ritualmente, dialogare. Queste cose, tra altre, vengono in mente leggendo Dalla gola del leone (ed. Adelphi), l'ultimo bel libro di Sergio Quinzio, che fin dal titolo allude a questa dimensione «residuale» della fede e di Dio stesso. Il titolo, infatti, riprende un passo del profeta Amos che dice: «Come un pastore salva dalla gola del leone due zampe o un brandello d'orecchia, così saranno salvati i figli d'Israele». Quinzio ripropone qui l'ipotesi (che era già presente nell'altro suo libro su La fede sepolta) secondo la quale la sconfitta di Dio nella storia, il fatto che la salvezza e il Regno non si siano avvicinati ma semmai allontanati da noi, non sarebbe solo un'apparenza che seduce gli intelletti stolti e la gente di poca fede, ma toccherebbe invece la stessa essenza di Dio e, di riflesso, l'esperienza religiosa dell'uomo. «Paradossalmente, scrive Quinzio, la fede implica, come nel grido del Signore sulla croce, l'esperienza del perderla, del non poterla tenere. Non è solo il Signore che muore sulla croce, ma è la sua parola che muore nella storia, fino alla più completa cancellazione». E' questo il senso dei venti secoli che ci separano dalla venuta del Messia: l'esperienza del fallimento della salvezza. Quando i ciechi e gli storpi venivano miracolati da Gesù sulle strade della Palestina, non si poteva non credere nella imminente realizzazione del Regno di Dio; «ma allora il Messia non era ancora morto crocifisso, non era ancora accaduto che per secoli quelli che, come il cieco nato, hanno sperato e creduto in lui avessero patito le più strazianti agonie. Non si possono ignorare questi venti secoli e fingersi al momento in cui Gesù passa beneficando per le strade della Palestina». Questa consapevolezza del «fallimento» della salvezza nella storia — che in Quinzio è legata esplicitamente a una costante meditazione sulla morte e sul dolore, anche in termini di effettive esperienze personali — è stata spesso una componente della spiritualità cristiana, che fin da San Paolo ha conosciuto e predicato Io «scandalo» di un Dio che si fa uomo, e si umilia fino a morire sul patibolo. Molta teologia contemporanea di ispirazione esistenzialistica si è costruita intorno all'idea che la santità di Dio, dal punto di vista della ingiustizia che domina l'uomo e la storia, non può che apparire in forma negativa, smentendo e umiliando tutte le esigenze della ragione, e anche le aspettative di potenza e rassicurazione di chi vorrebbe un Messia trionfatore e dominatore. L'uomo può incontrare Dio solo nella incertezza della fede, nel rischio di una salvezza solo promessa, nella debolezza di una morale che insegna a porgere l'altra guancia. La fede, però, sembra comportare che questi elementi di negatività siano, alla fine, svelati come apparenze, dissolvendosi nella gioia della salvezza compiuta, nella sicurezza del Regno. Anche Quinzio è convinto che, sebbene la fede sembri solo «l'estremo rantolo di un processo che non pub non far morire, alla fine, la fede stessa», essa sia in realtà il rantolo che ha «il potere di interrompere il processo». Con questo, la sua opera rivela un secondo decisivo aspetto: da una parte, infatti, essa sembra fondata sulla consapevolezza, sia pure problematica, del fatto che la parola di Dio nella storia non può che andare verso una sempre più definitiva consumazione, e dunque anche nel senso di un processo di laicizzazione, nel quale l'uomo prende atto che non ci sono più garanzie trascendenti, un ordine pieno e sicuro dell'essere, insomma che «Dio è morto». D'altra parte, però, Quinzio finisce per adottare anche lui una soluzione «dialettica» di questo problema, nel senso che alla fine dell'esperienza del fallimento c'è un rovesciamento: dal colmo della miseria al colmo della luminosità e della pienezza, come se il fallimento fosse solo jn artificio provviso¬ rio, che Dio usa per mettere alla prova gli uomini. Ma questa non è ancora una idea «trionfalistica» della fede? Alla fine, la consumazione della parola di Dio si svela come un'apparenza, dissolta dalla luce piena della salvezza. E' una conclusione che, formulata in termini così netti, Quinzio rifiuterebbe, opponendole la paradossalità della fede, per la quale Dio si perde davvero nella storia e tuttavia, anche, il Regno non può non venire. Anche attraverso una meditazione come quella di Quinzio sembra però farsi luce un'altra possibilità: e cioè che la laicizzazione, la consapevolezza della «consumazione» di Dio e della dimensione puramente terrestre della nostra esistenza, sia oggi l'autentica esperienza religiosa, che non chiede superstiziosamente il «segno» del miracolo, il trionfo apocalittico di Dio, ma si accontenta della traccia di un Dio scomparso, il che vuol dire bensì fine delle certezze assolute, ma anche scoperta di nuove dimensioni di tolleranza e disponibilità, dimensioni che il nostro pensiero deve ancora esplorare. Gianni Vattimo

Luoghi citati: Israele, Palestina, San Paolo