Ogni stagione ha le sue spie

Ogni stagione ha le sue spie DA FLEMING A LE CARRÉ' Ogni stagione ha le sue spie Il Grande Inverno delle Spie — bisognerà fare finalmente dei conti — cominciò nel 1960. Calò improvviso, tinse tutto di bianco, saldò nebbie gelate. C'erano stati fino allora i colori psichedelici, accesi, dei romanzi di Ian Fleming col sangue sesso e avventura del suo agente segreto James Bond. Bianchi arenili di isole tropicali, acque viola del Bosforo, cristalli e acciai nei covi del potere futuro. Torve auto ruggivano nei parchi degli ultimi Castnò: il tappeto verde incrociava destini di potere e di morte e un vecchio marinaio raccontava, da una scatola di sigarette aperta vicino al gomito del giocatore, la quieta sicurezza affettuosa di antiche glorie imperiali. Era insomma davvero una bella estate, anche se tutti fingevano di non sapere che quei colori cosi vividi in realtà appartenevano al miraggio di una aurora boreale. Razzi, fuochi d'artificio che salutavano la fine non soltanto della stagione. Come in un'ultima Estate di San Martino alberi e fiori, paesi ed uomini si bagnavano di una luce squisita perché estrema: il colore di una rosa d'autunno, dove vibra la putrefazione; il sussulto subito consumato dei tizzoni morenti. Qualcuno ha detto che gli «spy thriller», i romanzi di spionaggio, arrivano «quando non succede più niente». Fleming col suo James Bond scrisse appunto alla fine di tutto; quando la Storia sembrava si fosse fermata; quando fiamme e tamburi e sangue e gloria erano ridotti ad echi lontani. Il vecchio Impero dell'Isola, coi suoi vascelli e le sue cornamuse, più che in pace era stanco; ed a inventare queste storie cui si affacciavano torvamente Nuovi Imperi, informi e indeterminati come ambigue galassie, era infatti un antico soldato, anche lui sul punto di andarsene. «I vecchi soldati non muoiono, svaniscono», dice il proverbio. E come un surreale e ironico divertimento di passato e futuro, di morte e aldilà, di realtà e magia, di stagionata avventura e nervosa fantascienza, Ian Fleming mise il casco spaziale ad un suo antico Capitan Blood, rispolverò dalle storie di un'altra guerra remota (i «Trentanove gradini» di Sir John Buchan, 1915) l'Inghilterra-San Giorgio che cavalcava a combattere il male. Era stata, la sua, l'ultima generazione che aveva visto succedere qualche cosa. E che perfino per le lunghe letture delle malattie e degli inverni infantili aveva ricevuto la storia («Kim», 1901) di un ragazzetto inglese che camuffato da indiano portava ai valorosi difensori dei passi montani, minacciati dal crudele e barbaro «zarismo», un messaggio segreto. E non c'era stato, più tardi, anche Lawrence d'Arabia? Fu dunque brusco l'inverno — il Grande Inverno delle Spie — che calò improvviso nel 1960. Come un sinistro fantasma ricomparve dalle grandi pianure senza fine che fan torcere il vento tra la Manica e gli Urali. Terre di epidemie nomadi, di catastrofi sempre ripetute, di guerre che non possono finire. Adesso che l'ultima cicatrice stava ancora lievitando, non succedeva più niente di diretto: ma in quel tempo come congelato e rappreso già una prossima guerra andava preparandosi, veniva protetta e riparata come un piccolo fuoco ancora immobile nel silenzio. Qui dunque le Nuove Spie perfezionavano malignamente, nevrotiche, con gli stessi metodi, eguali veleni. Come crudeli burocrati bizantini amministravano lentamente la lunga morte di tutto: ideologie, miti, ragione e passioni. La nuova realtà sembrava essere la morte dell'uomo. E certamente San Giorgio era morto: trafitto dai nuovi draghi affilati che dalle grotte attendevano di volarsi incontro, pronti a torcere l'ultimo vento, l'ultimo, sulle vuote pianure. Si chiamò bene, così, «Funerale a Berlino», la prima avventura di una nuova specie di spia, che non aveva più né volto né nome. Sapemmo che, forse, si chiamava «Harry». E lo aveva identificato un inglese di trent'anni, Len Deighton, che tra molti mestieri si era fatto da solo nel- l'Inghilterra dei quartieri popolari e delle mutue laboriste, che aveva anche viaggiato ma perché tutti viaggiavano, oramai: bastava avere uno zaino ed essere come gli altri. San Giorgio era precipitato per sempre nel Tamigi. E questo nuovo eroe grigio, questa spia diversa perché finalmente comune, non era che un tecnico specializzato, semmai più ambizioso di altri. Desiderava solo guadagnarsi un alloggio migliore, buoni abiti, qualche cibo diverso, una confortevole pensione. Aveva insomma, anche sul «lavoro», un istinto di sopravvivenza da classe lavoratrice. Intelligente di schedarli, classificazioni, telecomunicazioni e metodi: piuttosto che capace di pistole e coraggio. Uno straordinario meccanico, insomma. E non si chiedeva niente. Era un guaio, il chiedersi, per cui morivano (e facevano morire) i gentiluomini e ufficiali. Era raccontato, infine, con una scrittura anche lei apparentemente comune", ma era invece secca e dolce proprio come la musica dei giovani e vagabondi Beatles: tornavano anche loro dalla Germania, in quegli anni. Un altro giovane inglese trentenne, figlio di un padre pittoresco ed instabile, David Cornwell, era invece cresciuto in scuole al di sopra dei suoi mezzi: vi si era educato al rancore di classe, ad una tortuosa autocommiserazione. Mentre andava in treno all'ufficio scrisse anche lui una «spy story»: e la sua spia non era quasi altro che un ometto grassoccio, con gli occhiali. Un burocrate scrupoloso malgrado tutto; malgrado il freddo, lo sfascio; malgrado i tradimenti della moglie, la propria incapacità di rapporti umani. Anche lui aveva a che fare con quel buio che dalla Germania tornava a soffiare su tutto, che aveva ingoiato il passato e oscurava il futuro. Ma se l'Harry dei racconti di Dei¬ ghton era un «plebeo» che sapeva ritagliarsi almeno una sopravvivenza, il George Smiley di John Le Carré (così si era ribattezzato il piccolo Cornwell) era invece «qualcuno», impigliato in un Destino di Decadenza. E si raccontava difatti più letterariamente, tra Maugham e Graham Greene: con triste ironia e ambiguità di luci diffuse, sfaccettate, riflesse. Burattinaio-testimone de «La spia che venne dal freddo» (1963), professorale cacciatore del tradimento de «La Talpa» (1974) George Smiley è insomma un personaggio più «classico» e complicato. Tanto che mentre Deighton sviluppava abili avventure («La pratica Ipcress, Un cervello da un miliardo di dollari, Un posto caro per morire») per poi svanire normalmente alla fine, quando erano cioè esauriti i temi o la curiosità di rinnovare, John Le Carré seguitò a prolungare il suo personaggio nella «saga» un poco verbosa e nevrotica di un nuovo senza famiglia volenteroso e masochista, in una lunga e nemmeno tanto cifrata autobiografia. Così il «neo-realismo» imposto da quell'inverno improvviso (e lo avevano confermato le storie contemporanee e vere dei Grandi Traditori: Burgess e MacLean, Blacke e Philby e Sir Anthony Blunt) diventò forse il tema della nostalgia proibita ma cullata, della fede perduta ma rimpianta. Della patria rinnegata e invocata: come il Padre e la Madre mancati a una triste infanzia. La commedia di un teatrale naufragio in più atti che si fa sempre più abile e più viziosa, manierista. George Smiley è un «personaggio», ormai, con risvolti, metodi, formule: come era James Bond. E' la fine dell'Inverno? E' un ripetersi delle stagioni? D Grande Traditore, l'autentica Talpa, fu anche lui il negativo di una immagine già scattata: si chiamava, difatti, «Kim» Philby. Claudio Savonuzzi John Le Carré

Luoghi citati: Berlino, Germania, Inghilterra