L'America di Carter e quella di Reagan

L'America di Carter e quella di Reagan RADICI IDEALI E VARIANTI TATTICHE L'America di Carter e quella di Reagan Nei giorni immediatamente antecedenti a Ferragosto, ebbi un lungo colloquio col presidente romeno Ceausescu, in una delle tante residenze estive del «Tito» di Bucarest, Snagov. A un certo punto il discorso cadde sulla liberazione degli ostaggi americani detenuti in Iran. Il presidente romeno, che pure aveva deplorato all'inizio, con note di asprezza, l'inaudita violazione del diritto internazionale (nella logica di una linea di equidistanza, massimo scudo dell'indipendenza della Romania), tendeva quel giorno ad attenuare le responsabilità dei carcerieri di Khomeini, ad accentuare i toni di deplorazione verso gli Stati Uniti. «Ma è un problema fondamentale per l'America — osservai —. Se Carter non raggiunge quell'obiettivo, la vittoria di Reagan è sicura». Il presidente romeno mi interruppe, imperturbabile: «E allora?». L'ipotesi di una vittoria dell'ultra-conservatore Reagan non sconvolgeva affatto l'ultimo grande «leader» del comunismo nazionale nell'Europa orientale, dopo la scomparsa di Tito. Dal lungo e ammiccante silenzio che seguì la battuta, battuta ad effetto, capii che addirittura il Capo dello Stato romeno auspicava quella svolta. «La distensione è in pericolo»: aveva detto, in più riprese, nel colloquio. Ceausescu, da seguace della «real-politik», da fedele assoluto e intransigente della linea dell'equilibrio fra i due blocchi contrapposti — supremo usbergo dell'autonomia e sovranità del suo Paese — avvertiva la pericolosa tendenza a una rottura della bilancia fra le due super-potenze, paventava, senza poterlo confessare, qualche bis dell'Afghanistan nell'Europa orientale, favorito dall'obiettivo indebolimento americano. Era evidente che la mente del presidente romeno tornava al modello Nixon, che egli aveva contribuito ad accreditare tanti anni prima forse più di ogni altro esponente del comunismo mondiale; e del Nixon candidato sconfitto prima ancora che presidente vittorioso. Bucarest era la prima capitale dell'Oriente comunista che nel 1968 si fosse aperta a una missione ufficiale del presidente repubblicano con un entusiasmo che solo De Gaulle aveva potuto eguagliare ma senza superarlo. Lo schema era lo stesso: guardare a un presidente forte, di destra, interprete di un'America non ideologizzata, di un'America pionieristica e semplificatrice, per poter realizzare un armistizio accettabile fra i due colossi, un armistizio tale da evitare ogni errore di calcolo minaccioso per uno «statu quo» mondiale da difendere, anzi da congelare. Mai come durante la gestione Carter, la bilancia internazionale delle forze era apparsa tanto sconvolta, la bussola altrettanto impazzii?. Ceausescu non dimenticava in quel momento, da patriota romeno che aveva opposto il suo «no» risoluto a ogni transito di truppe sovietiche nel proprio territorio, che Mosca aveva pericolosamente allargato la sua influenza, durante i quattro anni dell'amministrazione democratica, nientemeno che ad Angola. Cambogia, Etiopia, Afghanistan, suscitando solo reazioni «moralistiche» degne del massimo rispetto, ma irrilevanti sul piano delle valutazioni realistiche dei rapporti di forza. E degli epiloghi concreti. * ★ Poche ore prima avevo incontrato, sempre a Bucarest, il ministro degli Esteri romeno, l'accorto e sagace Stefano Andrei, uomo che conosce tutto del mondo sovietico, dei suoi risvolti, dei suoi retroscena anche di palazzo (mi parlò a lungo della salute di Breznev). In quell'incontro Andrei aveva insistito, con particolarissime sottolineature, sul timore profondo che la diplomazia sovietica aveva di Reagan, sulla preferenza di Mosca per Carter. Tanto più mi colpì la presa di posizione, indiretta ma egualmente rivelatrice, del Capo dello Stato che in Romania è anche segretario del partito comunista. Credo che oggi la linea di Mosca sia più vicina all'opzione di Ceausescu che non alle previsioni di Andrei. Tut¬ to sommato le presidenze repubblicane di questo dopoguerra hanno coinciso con le fasi in cui la coesistenza fra Mosca e Washington ha avu-' to minori giustificazioni ideologiche ma' certamente maggiore impatto con la realtà di un mondo dilacerato e sconvolto. A distanza di quattro anni dall'elezione di Carter, una certa immagine dell'America è completamente cambiata, tutte le speranze di allora si sono dissolte o vanificate. L'avvento di Carter volle dire il rilancio di una certa America, rooseveltiana e kennediana: l'America dei diritti civili e della indivisibilità di tutte le libertà, l'America che abbandona al suo destino le dittature latino-americane e non impiega la Cia per salvare regimi traballanti od oppressivi nell'intera sfera del Terzo mondo, l'America che non crede alle astuzie «metternichiane» di Kissinger nelle relazioni fra i blocchi e nei rapporti fra gli Stati, l'America che si sente profondamente «europeista» e «illuminista», rifuggendo da qualunque tentazione di isolazionismo, da qualunque orgoglio di solitaria e sprezzante autonomia imperiale. Un'America moralista, puritana, quasi virtuosa; l'America che spiega la politica generosa ma spesso innocente di Carter, che sta alla base della sua imprevedibilità e della sua nevrosi, che contiene in sé i germi dei suoi fallimenti e dei suoi errori ma anche delle sue grandezze (Camp David, per esempio). * * Per gli europei, e soprattutto per gli europei di fede democratica, l'America di Carter era molto più di casa di quanto non sia l'America di Reagan: col suo liberismo sfrenato, col suo individualismo orgoglioso, col suo primitivismo aggressivo, con la sua istintiva diffidenza verso un'Europa giudicata elemento di confusione o di corruzione (il partito di Reagan è stato avverso, nel corso di un secolo, all'intervento americano sia nella prima sia nella seconda guerra mondiale: c'era perfino un'ala fra il '38 e il '39 che sarebbe stata disposta a trattare con Hitler). E' un'America che considera il «new deal» un errore, la politica di intervento dello Stato nell'economia un riflesso del «demonio» socialista (cui si oppone il puritanesimo liberistico, dell'uomo che fa da sé), la «nuova frontiera» un fantasma che sta fra la retorica e l'utopia: un giornalista penetrante e malizioso ha parlato per Reagan di un «Roosevelt capovolto». Le radici ideali sono una cosa; le varianti tattiche un'altra. Gli elementi di continuità fra i due presidenti, soprattutto nella sfera internazionale, supereranno di gran lunga le differenziazioni 0 addirittura le antinomie fra 1 due personaggi, fra i loro retroterra culturali, fra le ispirazioni differenziate, o addirittura contrastanti delle due visioni della vita e del mondo. Ho visto Reagan una sola volta, a Los Angeles, insieme con Saragat e Fanfani; e il presidente del Senato lo ha ricordato sere fa in un affollato dibattito televisivo sulle prospettive della nuova amministrazione americana, cui abbiamo partecipato entrambi. Eravamo nel settembre del 1967; il presidente Saragat compiva il suo famoso giro del mondo, di pace e di amicizia, quel giro che partì dal Canada per concludersi nei sultanati del Golfo Persico. Il governatore della California ci ricevette in un grande albergo di Los Angeles: forse lo stesso che aveva scelto a quartier generale della sua campagna presidenziale (non meno che della prima conferenza stampa post-elezione). Giungevamo da Washington; il pranzo alla Casa Bianca, in onore di Saragat, che finiva in quel giorno 69 anni, era stato funestato da un incidente diplomatico, da un momento di incomprensione fra il Capo dello Stato italiano e il presidente Johnson, un democratico tollerante su tutto tranne che sulla questione vietnamita nella quale non accettava consigli o suggerimenti da nessuno, e neanche dagli alleati europei. Certi rilievi di Saragat, che adombrava una linea morbida, di negoziato, agli Stati Uniti, avevano suscitato l'irritazione del padrone di casa. Il clima che si respirava a Los Angeles, in quell'isola repubblicana, era di fermezza e di durezza ancora maggiori di quella della Casa Bianca, in materia di Vietnam, e in genere di equilibri internazionali. La difesa del prestigio imperiale degli Stati Uniti toccava vertici sconosciuti alla linea tanto più cauta e prudente dei democratici al governo. Eppure, quattro anni più tardi, sarebbe stato un presidente repubblicano a liberare gli Stati Uniti dalla tragedia vietnamita: con una spregiudicatezza inconcepibile non dico per Kennedy ma anche solo per un Johnson. Un paradosso che arriva fino a Reagan. Giovanni Spadolini