Pellizza tra pittura e umanità di Angelo Dragone

Pellizza tra pittura e umanità Pellizza tra pittura e umanità Grande mostra a Alessandria - Accanto al «Quarto Stato», 65 opere testimoniano gli ideali, i luoghi, l'arte di un protagonista della cultura figurativa europea tra '800 e '900 DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE ALESSANDRIA — A oltre un quarto di secolo dalla più vasta esposizione che Alessandria gli aveva dedicato nel 1954 (150 opere, con un'intera sala riservata al Quarto Stato), Giuseppe Pellizza da Volpedo è rievocato nella città che gli fu particolarmente cara, con una nuova mostra. Inaugurata l'altra sera per iniziativa del Comune, della Regione Piemonte e della locale Cassa di Risparmio, intende riproporne l'immagine alla generazione d'oggi, dopo che la più recente storiografia crìtica ha riconosciuto nell'umile, grande artista di Volpedo uno dei protagonisti della cultura figurativa europea a cavallo del secolo. Precedenti immediati di questa rassegna possono esser considerati infatti tanto gli studi della Brizio, del Maltese e in particolar modo quelli condotti da Aurora Scotti sui documenti sino allora conservati nel vecchio studio del pittore, a Volpedo, con la rigorosa esegesi sul Quarto Stato (fondamentale per la conoscenza della figura stessa dell'artista), quanto alcune mostre. Tra queste quella sulle origini della cultura figurativa del XX secolo tenutasi a Parigi nel 1960-'61, quella di Milano sul Divisionismo italiano (1970) e la stessa rassegna che nel '77 Torino aveva già dedicato a «Pellizza per il Quarto Stato», ancora una volta tornando a quest'opera capitale che i milanesi conservano nel loro Municipio, in Palazzo Marino, come uno dei maggiori capolavori dell'arte moderna in cui Corrado Maltese ha visto «il monumento più alto che il movimento operaio abbia mai potuto vantare in Italia». Anche per questo suo parti¬ colare valore sociale, se l'esposizione (66 opere tra dipinti e disegni) ha trovato la sede ideale in Palazzo Cuttica, valorizzato da nuovi restauri, è stato opportuno ospitare in Palazzo Civico il Quarto Stato con l'intero complesso di tele grandi e piccole e di disegni che ne documentano la decennale elaborazione, con una certa autonomia nei tre momenti contrassegnati dai titoli cui il Pellizza li riferiva: Ambasciatori della fame, Fiumana; Il cammino dei lavoratori o Quarto Stato. Oltretutto si è, però, sciolto insieme il voto che l'autore stesso aveva espresso, poco più di un anno prima della sua tragica scomparsa, quando all'economo del giornale socialista alessandrino, L'Idea Nuova, Gian Battista Porta, aveva scritto: «Volessero ì fati che Alessandria tua, che Alessandria nostra, diventasse la depositaria della tela che fu il pensiero, la cura costante della mia giovinezza, fatta di entusiasmi e di sacrifici. Lo volessero, ed io mi direi fortunato, perché fra le città italiane Alessandria sarebbe ora la meglio, adatta a comprendere il valore di vita del Quarto Stato». Nel suo articolarsi, la mostra, cui ha presieduto un comitato scientifico formato da Del Guercio, Marco Rosei con Aurora Scotti e Marisa Vescovo alle quali si deve in particolare la sua realizzazione, ha inteso mettere via via a fuoco le fasi in cui si sono svolte le ricerche tecniche e compositive di questo artista rimasto in ogni momento fedele alla propria terra e ai suoi umanissimi ideali. Uscito da una famiglia dì agricoltori di Volpedo, piccolo borgo rurale del Tortonese, in provincia di Alessandria, il Pellizza ebbe una variegata formazione artistica, iniziata nel 1883 all'Accademia di Brera, sotto la guida del Sanquirino, ma proseguita poi a Roma, dove aveva voluto accostare l'opera di Raffaello e di Michelangelo, quindi a Firenze dove, per un biennio (1887'1888) fu allievo del Fattori, interessato anche all'esperienza dei Macchiaioli. Era poi passato alla scuola del Tallone, nell'Accademia Carrara di Bergamo, pur rivelando fin dalle sue prime Nature morte, come nella tela bergamasca Ricordo di un dolore, quella interiore autonomia che gli permise di affrontare la sua vicenda creativa con indiscussa originalità, anche quando con Segantini, Morbelli e Previati si valse di tecniche divisioniste, che fini per adeguare ad una resa emozionale degli effetti luminosi propri della natura cui guardò come ad un costante punto di riferimento. Luoghi e persone cui era più intimamente legato gli si offrirono come naturale tramite d'una ricerca che doveva svilupparsi attraverso una serie di ritratti e di piccoli paesaggi volgendo la sua iniziale pittura a impasto a una più chiara scansione cromatica che lo portò all'uso di colori puri sino ad attingere nell'immagine del Sole il più alto grado di veridico luminismo. Approdava intanto alle sue opere di maggior impegno contenutistico, quali Processione e Sul fienile; più avanti Lo specchio della vita (Galleria civica di Torino) in cui la fresca impressione colta sul vero (aggiungendo alla data persino fora in cui, verso il tramonto, ne aveva fissato la prima immagine) riusciva a trasformarsi in una figurazione simbolica, quasi cristallizzata nei suoi valori luministici. Cosi anche nelle cinque tele (per la prima volta riunite), in cui il Pellizza intese sviluppare il tema dell'amore nella vita (1898-1904), la puntuale resa della luce nel suo ciclo naturale, dall'alba alla notte, toccando il punto più luminoso nel tondo centrale nell'acceso cromatismo dei rosseggiami vitigni, s'accompagna dal Prato fiorito alla solitaria Vecchia nella stalla, all'umana vicenda tesa tra la vita e la morte. Facendosi interprete dell'evoluzione della coscienza politica e civile il Pellizza, con lo spirito di un apostolo laico, intraprese quindi l'impegnativa prova che doveva condurlo al Quarto Stato nel quale a farsi poesia è l'amore che ha legato l'artista alla sua terra, al paesaggio e agli uomini di Volpedo che volle ritrarre nel suo grande quadro. Poi, come per un bisogno più forte, dalle vie già battute dai prodotti d'una moderna civiltà delle macchine, levò ancora il suo sguardo verso il cielo, per cercare di cogliere nel luminoso disco solare la più intima verità di quella luce-colore che nel suo divisionismo perseguiva, e insieme una immagine simbolo d'una continua rigenerazione, intesa come promessa d'un domani migliore. Ma quando, con l'improvvisa morte della moglie, ogni sua speranza venne meno, anche le nuove ricerche tecniche che a Roma, nel 1906, avevano potuto attrarlo, perdettero per lui ogni interesse. E preferì chiudere la sua giornata terrena, troncando con tragico gesto la sua stessa vita. Angelo Dragone