Il tramonto dell'Occidente e il suo discusso profeta

Il tramonto dell'Occidente e il suo discusso profeta RILEGGERE SPENGLER A CENT'ANNI DALLA NASCITA Il tramonto dell'Occidente e il suo discusso profeta Il primo volume del Tramonto dell'Occidente uscì (con l'indice completo anche del secondo, comparso poi nel '22) nel settembre del 1918, poche settimane prima del crollo della Germania. Oswald Spengler, che, trentunenne, aveva cominciato l'opera sette anni prima, nei mesi della crisi marocchina che umiliò il Kaiser Guglielmo II, scrisse a un amico che tali erano il disgusto e la vergogna di fronte al disastro da aver pensato talvolta di non essere più «rapace di continuare a vivere». Visse ancora, invece, sino al '36, quando fu stroncato da un attacco cardiaco: e ebbe modo di angosciarsi per il tentativo di rivoluzione dei soviet in Baviera, di vivere e detestare l'esperienza della repubblica di Weimar, di accostarsi al nazionalsocialismo per poi dissociarsene, giudicando Hitler, dopo un colloquio, «persona rispettabile», ma davanti a cui «non si ha mai il senso che sia uomo di qualche importanza». Giudizio singolare per chi si riteneva profondo conoscitore della «realtà politica» e criticava nel nazismo proprio la tendenza a nascondere tale realtà dietro false teorie razziali. Queste vicende biografiche hanno pesato in modo preponderante nella valutazione del pensiero di Spengler e, soprattutto, del Tramonto dell'Occidente, cui non aggiungono novità radicali né Prussianesimo e socialismo (1924), L'uomo e la tecnica (1931), Anni di decisione (1933), né gli inediti di recente pubblicati sulla preistoria e l'origine delle culture. Quell'opera ebbe un immediato, enorme successo di pubblico; ma critiche severe di unilateralità e dilettantismo da parte di storici professionisti e di metodologi. Friedrich Meinecke, ad esempio, scorse in certi schemi spengleriani quasi una mentalità da sergente della storiografia, che intruppa a comando uomini ed eventi. A queste critiche su specifiche interpretazioni o, come da parte di Collingwood, sull'eccessiva acquiescenza a temi positivistici delle analogie poste da Spengler tra il fiorire e il decadere delle «culture» con la vita e la morte degli organismi biologici, si vennero poi aggiungendo quelle di stampo politico-ideologico, che considerarono il Tramonto espressione del nazionalismo tedesco erigente il crollo della Germania guglielmina a simbolo del declino della cultura occidentale, interpretato a sua volta come il momento di decadenza (Zivilisation) a cui è condannata ogni «cultura». Non solo. Si vide anche in Spengler e nella sua difesa del «socialismo prussiano» (del totale assoggettamento di ciascuno allo Stato, nel modo tipico degli Hohenzollern) per lo sviluppo dell'età tecnologica, una minaccia contro il valore indiscusso della democrazia e l'anticipazione, tanto più pericolosa quanto non voluta, del clima ideologico in cui prosperò poi il nazismo. Né mancò chi sostenne che la «vera e autentica civiltà occidentale» «non è faustiana, ma cristiana e cattolica, non germanica, ma romana e neolatina». Così la «fortuna» di Spengler, dopo il successo iniziale, è andata sempre peggiorando, sino a fare di lui l'espressione di una degenerazione involutiva dello «storicismo», del riconoscimento del carattere storico di tutte le manifestazioni culturali dell'uomo. Questi rilievi critici non sono infondati e trovano qualche morivo nell'opera di Spengler, che spesso manca di sfumature e definisce drasticamente i fenomeni storici anziché descriverli. E questo modo di procedere non dipende solo da presupposti teorici, bensì anche dal sentimento profondo che Spengler condivise con altri intellettuali dell'età guglielmina in difesa della loro idea della Germania contro la rivoluzione francese e lo spirito «democratico». E va pure detto che le profezie che Spengler fece circa la decadenza culturale dell'Occidente, sulla base della pretesa scientificità della sua teoria morfologica circa la «vita» delle varie e diverse culture, sono state dei fallimenti. Basti ricordare quella, assurda, riguardante l'ineluttabile fine della scienza teorica. Eppure l'opera di Spengler, nonostante ciò, merita oggi una considerazione meno sbrigativa. E' una riconsiderazione che quest'anno, in occasione del centenario dell'autore, si va delineando da più parti. L'esito radicalmente relativistico dello «storicismo» spengleriano, prima di essere giudicato va visto come espressione tipica di un orientamento essenziale del nostro secolo e non soltanto della crisi politico-culturale della Germania sconfitta. E' un orientamento con analogie riscontrabili dalla psicoanalisi al teatro di Pirandello, dalla «crisi» della fisica alla prosa di Kafka e alia teoria vittgensteiniana dei «giochi linguistici», ciascuno con la sua inconfondibile «grammatica». In tutte queste manifestazioni è presente, più o meno chiara, la coscienza della perduta illusione di possedere la verità assoluta. Cadono le certezze rassicuranti che poggiavano sul presunto possesso e si accentua la durezza dell'esistere senza sicuri appigli. La storicità di ogni espressione culturale, che ne impedisce l'assolutezza, diventa così una pura relatività al tempo di qualsiasi dottrina filosofica o religiosa e di ciascuna norma morale. Ogni «cultura» è specifica di un tempo, ha un suo orizzonte che la rende incomunicabile con le altre. Quando Feyerabend, oggi, nega la possibilità di un metodo scientifico e sostiene che anche i fatti a cui si appella la scienza sono soltanto «ideologie del passato», spinge all'estremo il medesimo modo di pensare. L'attualità di Spengler sta nell'aver cercato di teorizzare tale modo: accogliendo da Dilthey la distinzione tra conoscenza della natura, incentrata sulla causalità meccanica, e comprensione della storia, egli fa di tale distinzione qualcosa che riguarda la realtà stessa: da un lato v'è quel che è divenuto e ha la rigidità della morte e, dall'altro, ciò che è vivente e diveniente. La storia, appunto, è un processo biologico che, come la «natura vivente» di Goethe, si contrappone all'uniformità delle vicende naturali. Ogni «cultura», essendo un organismo, nasce, si sviluppa, decade e muore: e qui riecheggia in Spengler la dottrina di Nietzsche sull'eterno ritorno, in base alla quale egli delinea l'identità «morfologica» delle varie culture, che gli permette di predire il tramonto fatale dell'Occidente. Ciascuna di queste culture ha però un diverso patrimonio biologico, sviluppa un proprio irripetibile mondo simbolico. Così Spengler, contro la visione eurocentrica della storia, accenna alle culture cinese, indiana, azteca; ma, soprattutto, si sofferma a tracciare gli orizzonti, incomunicabili, della cultura «apollinea» della Grecia e di Roma, di quella «magi-arabica» della Giudea, di Bisanzio, della prima cristianità e dell'islamismo e, infine, di quella «faustiana» che dal Medioevo gotico giunge fino al Novecento e ch'egli giudica ormai decadente nella fase di Zivilisation. Così, per la chiusura storica d'ogni cultura, il relativismo è inevitabile: ma questa croce e delizia del nostro secolo ha in Spengler un fondamento che merita di essere meditato. Dire che ogni verità è «figlia del suo tempo» mette in evidenza la storicità di tutte le nostre manifestazioni culturali; ma ciò non significa, come conclude il relativista, che essa valga esclusivamente per il suo tempo, poiché ogni acquisizione, mai assoluta, di verità è frutto di un bisogno comune, irrinunciabile e assoluto, di verità. Tanto poco le «culture» sono incomunicabili, che Spengler, uomo della cultura «faustiana» riesce tuttavia a cogliere il tono vitale di quella «apollinea» e di ogni altra, partecipandovi quasi vissutamente. L'efficacia suggestiva del suo stile ne mette di per sé in crisi la tesi teorica. Forse il paradosso di Spengler, il suo relativismo esasperato, e teorizzato più che vissuto, dipendono dal fatto che, nonostante egli riconosca la diversità delle manifestazioni storiche, continua tuttavia a condividere una visione romantica della storia. Ossia, una concezione della «storia» come entità che procede secondo sue leggi e di cui gli uomini singoli non sono protagonisti ma solo strumenti. Si può essere «romantici» sia sognando (come Hegel e Marx) un progresso storico continuo e garantito, sia costringendo fatalisticamente (come Spengler) tutti gli eventi e tutte le scelte individuali entro un perenne e insensato fiorire e morite di culture irrelate. Anche il «relativismo» è frutto, nonostante tutto, della nostalgia per una comprensione «assoluta»: ed è probabile che se ne possa uscire quando si guardi non alla totalità infinita della storia, bensì alla finitezza degli uomini che la costruiscono. Francesco Barone Spengler (dis. di Grossmann)

Luoghi citati: Baviera, Germania, Grecia, Roma, Weimar