La spina castrista nel fianco

La spina castrista nel fianco PARTE DALLA GIAMAICA LA NUOVA STRATEGIA USA NEI CARAIBI La spina castrista nel fianco Le elezioni hanno appena capovolto la situazione-politica nell'isola: il partito democratico popolare, fedele al modello cubano, è stato battuto dai laboristi, che mirano alla ripresa industriale e all'occupazione - In un'area militare e commerciale delicata, l'America può trovare un Paese amico - Ma deve aiutarlo a uscire da condizioni sociali e economiche disastrose DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK — Giovedì 30 ottobre, quattro giorni prima di quelle presidenziali americane, si sono svolte le elezioni in Giamaica. E'stato il periodo più sanguinoso della storia dell'Isola, in cui le pallottole hanno sostituito le schede e la prevaricazione la ragione. Molta gente è fuggita, si sono fermati il turismo e i concerti reggae. Le cronache hanno riferito di 600-700 morti dall'inizio dell'anno, tutti vittime della violenza politica. La terra del sole, del rum e del tabacco, scoperta da Cristoforo Colombo e onorata dall'ammiraglio Nelson, rifugio di corsari come Drake e rivoluzionari come Bolivar, ha sfiorato la guerra civile. Turgida di rivalse razziali e coloniali, di odii ideologici e tribali, ha dimenticato lo svago e la gioia per la paura e il dolore. Nei giorni in cui l'ho visitata, il sottosegretario alla sicurezza nazionale Roy McGann era appena stato ucciso in uno scontro a fuoco. Kingston, la capitale, traboc¬ cava di cartelli con su scritto «morte al J.L.P.. (il partito laborista) e «vendetta contro il P.N.P.» (il partito democratico popolare); di barricate per le strade del ghetto e di spedizioni punitive di squadristi rossi e neri; di ragazzi che giravano armati di P38 e di machete, V micidiale coltello per tagliare la canna da zucchero. Sul Daily Oleaner, l'orgoglioso quotidiano nazionale, la propaganda si mescolava agli annunci delle taglie di 10 mila dollari ciascuna sui terroristi ricercati. In sole 72 ore, la radio aveva segnalato 16 assassina e 8 ferimenti. A Washington, il governo Usa ha trascorso la vigilia in spasmodica tensione. Per la prima volta, esso ha temuto che il castrismo si propagasse legalmente nei Caraibi. Il premier Michael Manley, leader del partito democratico popolare, al potere dal "72 e forte di ben 47 seggi su 60 al Parlamento, ha proposto alla Giamaica il modello cubano. Il suo rivale Edward Seaga, il capo laborista, si è battuto per una svolta a destra, a suo parere indispensabile al recupero del mercato e dell'occupazione. La stampa europea ha addossato ai due uomini facili etichette, di riformatore al primo ministro e restauratore all'avversario. Ma, con timore, Washington ha visto radicalizzarsi la campagna elettorale: ai suoi occhi, come a quelli di molti giamaicani, il voto è diventato una scelta tra comunismo e capitalismo. Contro ogni aspettativa, la verifica alle urne è stata clamorosa. L'elettorato giamaicano ha respinto le istanze socialiste e terzomondiste di Manley accogliendo quelle libertarie ed efficientiste di Seaga. Ha visto nel partito democratico popolare l'albore non della democrazia ma della dittatura, e in quello laborista lo strumento non del colonialismo, ma della ripresa industriale. A Manley, e a Castro, il suo principale alleato, ha preferito Seaga, e chi presumibilmente lo appoggiava, il presidente Carter. Il partito democratico popolare ha così perso tutti i seggi tranne 9,ei laboristi ne hanno conquistati 51. I rapporti di forza tra la sinistra e i conservatori si sono rovesciati più nettamente che in America 4 giorni dopo. Anziché la vittoria, le elezioni hanno sancito la sconfitta di Cuba. A due settimane dal voto, Washington considera il 'no» della Giamaica al modello cubano una pietra miliare nella vicenda dei Caraibi. Non crede più che la spinta marxista e rivoluzionaria sia inarrestabile, come credeva al tempo del golpe di Bishop a Grenada un anno e mezzo fa. Sottolinea che nella regione altri quattro Stati hanno scelto ultimamente la democrazia di stampo occidentale, St. Vincent, St. Lucia, Dominica e St. Kitts-Nevis. Assiste con sollievo agli interventi anticastristi del Venezuela, che finanziacol petrolio i regimi parlamentari. «Per noi» spiega il direttore del «Consiglio caraibico» degli Stati Uniti, Walker William, «la Giamaica rivestiva più importanza del Nicaragua». «Ci fornisce l'occasione» aggiunge Roger Fontaine, l'esperto del Centroamerica del presidente eletto Reagan «di ristabilire nella zona l'equilibrio scosso dalla presenza militare sovietica a Cuba». Di fronte alla vittoria laborista nell'isola del *ganja> o marijuana, la superpotenza respira di sollievo. La spina castrista nel suo fianco si fa più sopportabile. «La Giamaica» dice William «si trova in un'area strategica ed economica decisiva. Noi esportiamo nei Caraibi prodotti per 2 miliardi di dollari annui. I nostri investimenti totalizzano 4 miliardi e mezzo. Metà delle nostre importazioni di petrolio passa sulle loro rotte. Una gran quantità del nostro greggio è lavorata nelle loro raffinerie; per noi è più importante del Golfo Persico». In un certo senso, William ricorda le dichiarazioni al Congresso Usa del ministro della Difesa Brown, secondo cui «non bisogna lasciare campo libero ali'Urss», ma rimprovera all'amministrazione Carter di non aver individuato ancora «un sistema di tutela dei nostri interessi nell'Isola». Le valutazioni del direttore del •Consiglio caraibico» sono condivise dal Pentagono. L'anno scorso, quando si scopri che una brigata d'assalto russa operava a Cuba, Carter ordinò la formazione di una forza permanente per le Grandi e Piccole Antille, con base a Key West in Florida. Manovre militari vengono adesso condotte periodicamente in tutta la regione. Un mese fa, il generale Schweitzer ha visitato Santo Domingo per concludere un accordo dì reciproca difesa. Un'altra missione militare si è proposta di trasformare le Barbados «in un secondo Iran dell'epoca dello Scià». Si tratta di un processo faticoso e lento che non potrebbe essere coronato da successo senza un sostegno sociale ed economico. « Dichiara William: «Per allontanare il castrismo, dob¬ biamo essere fautori di riforme». «Sotto Seaga», incalza Fontaine, «la Giamaica è destinata a diventare il banco di prova della nuova strategia Usa». Fontaine ritiene insufficienti i trattati e l'assistenza. Suggerisce «complementarità di industrie e commerci, di politiche culturali e istruzione». «La Giamaica è un Paese disastrato: nell'ultimo quinquennio, il suo prodotto lordo nazionale è sempre sceso, nonostante l'impulso dato dal governo socialista alla sua unica risorsa, la bauxite. La disoccupazione ha superato il 30 per cento, il 60 per cento nei ghetti di Kingston e di Montigo Bay. L'inflazione, in quotidiana ascesa, ha svuotato anche le casse dello Stato». Mancano generi alimentari e pezzi di ricambio per le auto, parte delle scuole sono chiuse, non si costruiscono più case. Per Manley, un leader carismatico che s'ispirava a Fidei, la colpa era degli Stati Uniti e delle multinazionali, e prima ancora del colonialismo. L'ex premier sottolineava che l'Isola ha esportato solo zucchero e banane, e importato tutto il resto, beni di consumo, tecnologia e petrolio. Nel '69, quando il greggio costava ancora 3 dollari al barile, la sua bilancia dei pagamenti accusava già uno spaventoso deficit. Manley, l'erede di una dinastia politica paragonabile a quella dei Kennedy in America, notava che con l'indipendenza del '62 era scoppiata anche la fuga dei cervelli, prima in Inghilterra poi nel Canada. All'inizio di quest'anno, quando il Fondo monetario gli aveva chiesto una spietata austerità, invece di accettare per saldare l'enorme debito con l'estero, aveva troncato ogni rapporto. Seaga, già ministro delle Finanze nel decennio di Bustamante, «11 padre della patria», addossa l'intera responsabilità agli otto anni del regime. Accusa Manley di aver voluto realizzare nell'ultimo quinquennio riforme so¬ ciali che richiederebbero un secolo, di aver tradito il libero mercato, di aver spaventato gli investimenti stranieri con la nazionalizzazione e il castrismo. Educato a Harvard, con una mentalità imprenditoriale, senatore a 29 anni, Seaga abbraccia le ricette del Fondo monetario, ma promette il miracolo economico dopo i sacrifici. Anticomunista (Manley, per i suoi legami con gli Stati Uniti, lo ha soprannominato daga), religioso come la maggioranza della popolazione, identifica i laboristi con la classe media, mobilitando tuttavia il sottoproletariato, e infiammando i giovani con «le nuove frontiere giamaicane» Seaga, che ha subito chiesto il ritiro dell'ambasciatore cubano accusandolo di essere vicino al terrorismo, insiste che il rapporto della Giamaica con gli Stati Uniti «sarà di amicizia ma non di sudditanza». Ha dichiarato che rifiuterà alleanze politiche e contempla la legalizzazione del commercio della marijuana, anteponendo il saldo dei conti correnti giamaicani alle ansie statunitensi. Egli inquadra il proprio mandato nella tradizione bipartitica dell'Inghilterra e non ritiene proprio compito fare dell'isola il bastione dei Caraibi contro l'Urss. «Sono sicuro che il governo Reagan rispetterà la nostra autonomia», ha detto. Il presidente della Confindustria, Ronald Sasso, di lontana discendenza italiana, ha organizzato a Kingston una riunione di uomini di affari stranieri, disposti et investire in Giamaica, e le grandi banche americane gli hanno riaperto il credito. Sono tornati i primi «cervelli» fuggiti negli ultimi otto anni, e sono scappati i primi terroristi. Con passione, Seaga asserisce che «il clima repressivo è ormai scomparso». Con apprensione aggiunge che il problema giamaicano «è guadagnarsi il visto di uscita dalla crisi». Seaga ha fiducia, ma sa che la battaglia sarà lunga e non senza rovesci. Ennio Gaietto