I robot samurai della salvezza

I robot samurai della salvezza IL TERZO MONDO PASSERA" DALLA FAME ALLA SFIDA TECNOLOGICA? I robot samurai della salvezza Nel novembre '70 lo scrittore Mishima si uccise: non tollerava un Giappone popolato di fanatici delle statistiche, di automi da catena di montaggio - Quella società, 10 anni dopo, è il nuovo mito dell'Occidente - Servan-Schreiber, in un libro che esce in 14 lingue, la propone come modello da applicare alle terre diseredate, per la loro emancipazione economica In un giorno di novembre del 1970 Yukio Mishima si inoltrò nella Tokyo di vetro e cemento, foresta di strade pensili e grattacieli, tenendo sotto il braccio le pagine conclusive della sua ultima opera. Il mare della fecondità, da consegnare all'editore. Lo scrittore aveva quarantacinque anni e indossava la divisa della setta militare, che egli stesso aveva creato per «restaurare l'autorità dell'Imperatore». Il suo comportamento, dettato da un narcisismo sema fondo, aveva un valore più estetico che ideologico. Il tragico gesto che Mishima si preparava a compiere, quella mattina di tardo autunno, sarebbe stato interpretato in questo senso dai suoi numerosi amici e dai suoi pochi seguaci. Campione di kendo, l'arte di usare la spada degli antichi samurai, Mishima era un appassionato cultore della letteratura classica e difensore della vecchia tradizione della società giapponese. Da tempo ì suoi contatti col mondo esterno si concludevano in una lacerante delusione: l'Arcipelago non era più popolato da guerrieri ansiosi di sacrificarsi per la patria ma da fanatici delle statistiche e da automi incollati alle catene di montaggio. Il disprezzo per quel che lo circondava dominava ormai i suoi gesti e i suoi pensieri. Quel giorno di novembre, consegnato il manoscritto, Mishima si avviò verso Ichigaya, e, acconciato in quel modo bizzarro, stretto in una divisa nera accollata, varcò l'ingresso del quartier generale delle forze di autodifesa, come si chiamano oggi le forze armate giapponesi, in obbedienza alla Costituzione imposta dai vincitori americani, dal generale McArthur, il Mikado bianco. deve togliersi la surrezione, vita. Il plateale suicidio assunse il significato di una ripulsa della società di imitatori e di robot nata dalla sconfitta. Uno degli ultimi gesti di Mishima, quello di respìngere il microfono offertogli, fu di spregio per gli aggeggi elettronici, nuove divinità del Giappone del miracolo economico ininterrotto. Dieci anni dopo quella società disdegnata da Mishima è il nuovo mito orientale dell'Occidente. I cento milioni d'abitanti dell'Arcipelago non sono più giudicati degli imitatori ma dei creatori: il Giappone viene additato da una schiera sempre più folta di economisti, di sociologi e di esteti come un modello da studiare con rispetto, spesso come un esempio da seguire. Gli occidentali non vanno più a Tokyo e a Osaka per osservare con malcelata ironia (o disgusto) un popolo di «alcolizzati del lavoro», secondo l'incauta sentenza di una missione di studio della Comunità europea, ma per scoprire una collettività priva di materie prime e ricca di intelligenza, fatta a pennello per i tempi che corrono. Il giorno del quarto anniversario della morte di Mishima, nel 1974, partecipai a Tokyo a una mesta riunione di intellettuali. Avevo sollecitato l'invito, pur sapendo quanto fosse sgradita la presenza di un estraneo, in quell'occasione. Sembrava di assistere al preludio di un seppuku collettivo, di un'autosoppressione corale, benché i presenti non avessero spade e pugnali e si fossero accosciati davanti alle tazze di tè verde col semplice proposito di parlare dell 'amico scomparso. Avevano tutti conosciuto Mishima, e, prima con riluttanza, poi quasi con abbandono, mi descrissero nei dettagli il cerimoniale del suicidio, e ■mi spiegarono il significato dei suoi ultimi gesti. Se ora rievoco quell'incontro, in una casa rivestita di legno scuro, nella periferia benestante di Tokyo, è perché quegli intellettuali tradizionalisti, scalzi e avvolti nelle vestaglie di seta, spesero l'intera notte a elencare le sfortune e le abiezioni del moderno Giappone, che proprio in quelle settimane stava superando, grazie al suo dinamismo, la crisi ancora oggi subita dal resto del mondo industrializzato. Io, straniero e superficiale conoscitore del Giappone, spiegai a quei mancati samu- rai che il loro Paese non mancava di spirito creativo, poiché le statistiche tanto odiate da Mishima dimostravano che la forza della società giapponese non consisteva soltanto nella dedizione al lavoro, ma anche nella capacità di immaginazione. Gli incassi per la vendita di know how, di nuova tecnologia, di brevetti, erano in costante aumento. Non erano certo poemi epici, ma conoscenze e strumenti su cui, nel bene o nel male, si basa l'organizzazione della nostra civiltà. A quegli amici di Mishima mandai poi un libro, appena stampato, di un esteta europeo, nel frattempo innamoratosi del moderno Giappone: Il mondo dei segni di Roland Barthes. Penso che sia stato proprio Barthes, nella veste di esteta, a scorgere tra i primi qualità preziose e umana razionalità nelle masse giapponesi, descrìtte come mono- tone e insignificanti da tanti viaggiatori armati di luoghi comuni. Più tardi un etnologo, Lévi-Strauss, studioso di popolazioni indiane -selvagge- dell'America del Nord e del Sud, si è dedicato al Giappone, ha cominciato a parlarne come di una terra ricca di individui e non di greggi. Di un Paese «très charmant et très délicieux». Lévi-Strauss fa il ritratto di un Giappone giovane (Tokyo è una città di giovani, senza vecchi) che può offrirci, restituirci quel che gli abbiamo dato nel passato. L'etnologo corregge il frusto dogma sulla vocazione dei giapponesi a copiare. Ricorda quel che fu il loro atteggiamento nel secolo scorso, di fronte all'offensiva occidentale: l'Occidente — si dissero i giapponesi — è più potente di noi ma è inferiore a noi, per tenergli testa dobbiamo conquistare gli strumenti della sua potenza per difenderci e restare noi stessi. Seguendo la stessa strada, dopo la sconfitta del 1945, l'Arcipelago è arrivato alla forza industriale d'oggi. Non stupisce che l'etnologo Lévi-Strauss sia affascinato da quella società. Dove è mai possibile trovare una grande civiltà industriale all'interno della quale sopravvive e prospera un pensiero animista? Lo scintoismo coabita in quelle estreme isole dell'Asia con il buddhismo: il giapponese medio si sposa sovente con il rito scintoista e si fa seppellire secondo il rito buddhista. In alcune regioni, sempre più rare (il rimpianto di Mishima non era del tutto campato in aria) si trova nella stessa stanza la cappella buddhista e l'altare scintoista. Per la tradizione popolare, ogni roccia, ogni albero può essere la sede visibile di uno spirito soprannaturale. Principii animisti sopravvivono in individui le cui giornate sono ritmate dalle regole di una società elettronica. ria, evitando spaccature, drammi rivoluzionari, con grandi vantaggi. Questa controversa teorìa, circa la possibilità di saltare a pie pari intere pagine di storia, è sostenuta anche in un libro dal titolo ambizioso: La sfida mondiale (ed. Mondadori), pubblicato simultaneamente in quattordici lingue, da Tokyo a New York. Con uno stile technicolor, Jean-Jacques Servan-Schreiber propone al Terzo Mondo di evitare una tappa, quella dell'industrializzazione classica, per passare direttamente all'era dell'informatica, di cui il Giappone è il laboratorio più avanzato, più ricco di invenzioni. L'Arcipelago viene proposto come modello, proprio per i suoi robot tanto detestati da Mishima. Giornalista di talento, Servan-Schreiber riesce a volgarizzare problemi esplosivi, di cui molti intuiscono l'importanza ma pochi le probabili conseguenze. Al centro del suo libro vièta crisi energetica, l'aumento del petrolio e la futura penuria o fine del minerale su cui si basa gran parte della società industriale. Alle origini della crisi c'è il mutamento geopolitico provocato dall'indipendenza dei Paesi ex coloniali, ma anche la crescita della domanda, dovuta all'aumento del livello di vita e all'espansione dell'industria nei Paesi consumatori. Gli effetti principali di questo nuovo assetto mondiale sono tre. Il primo è la difficoltà o il declino delle economie (quindi delle potenze) occidentali. Il secondo è il peggioramento della miseria nelle nazioni povere, ritardate nel loro sviluppo anche dall'aumento del prezzo del petrolio. Il terzo è il ruolo sempre più importante dei Paesi produttori, appartenenti all'Opec. Fatta questa analisi, Servan-Schreiber lancia la sua sfida: creiamo una specie di piano Marshall, con i soldi sborsati dalle nazioni industrializzate a quelle produttrici di greggio, al fine di favorire l'emancipazione economica delle terre diseredate. Dotiamo queste ultime di una tecnologia avanzata, puntando appunto sull'informatica e la telematica, per consentire loro di evitare un'industrializzazione di tipo tradizionale, superata. Tokyo, 24 novembre '70. Yukio Mishima arringa i soldati del quartier generale, poco prima di uccidersi col «harakiri»