Torno al Sud e mi consolo di Stefano Reggiani

Torno al Sud e mi consolo UN NUOVO MERIDIONALISMO TRA IDENTITÀ* E PROTESTA Torno al Sud e mi consolo A Napoli le tentazioni sono più antiche ed è più forte la reazione all'accerchiamento culturale - Un premio per le civiltà locali e un dibattito sulle strade separate - Laterza non è d'accordo, Sciascia è indulgente, Galasso spiega - I malinconici sopralluoghi di Pomilào - Il rischio di dimenticare la cultura unitaria Con rispetto e con sospetto vediamo rifiorire i meridionalisti. Mentre la crisi economica stringe anche il Sud, soprattutto il Sud, e si cercano in Giappone i capitali per gualche posto di lavoro; mentre si discute sul rapporto emblematico tra fabbrica e città nella Campania del disagio assenteista o nella Calabria dell'inganno industriale, tra i cantieri inutili di Gioia Tauro; mentre soffriamo tutti risorge il mito e il rifugio della cultura meridionale. Gli intellettuali pendolari con Roma o con le città del Nord si siedono a consulto con un brivido di rimorso: «Che cosa offriamo a quelli che tornano a casa, spinti dalla disoccupazione o dalla nostalgia? A quelli costretti a restare?». Cosi si torna a parlare di cultura meridionale come di un patrimonio separato, ma disperso su un grande territorio, dagli A bruzzi alle P uglie, dalla Campania alla Sicilia. Dice Leonardo Sciascia: «Ci vuole indulgenza per l'uomo di cultura che si piega verso le proprie radici. Io sto volentieri con i meridionalisti puri, con gli eruditi, con i ricercatori. Ritengo insopportabili solo i meridionalisti di pro¬ fessione, che si trovano magari tra i politici». Ma l'editore Vito Laterza è deciso: «Non ho mai creduto al mito della cultura meridionale. Rappresenta un danno per il Sud, impedisce di vedere la realtà nella sua completezza, incoraggia il vittimismo e i nostri peggiori difetti». Qualche giorno fa a Sorrento un gruppo di intellettuali s'è riunito attorno a un tavolo per presentare il Premio Civiltà del Mezzogiorno da consegnare ogni anno in occasione degli Incontri del cinema. Un premio come? Non è senza significato che la nuova iniziativa sia nato dalla costanza tempestosa di un regista di storie popolari. Fino al penultimo film Pasquale Squitieri non era istintivamente associato alla cultura, ma dopo «Razza selvaggia» ha trovato nelle cadenze della sceneggiata un modulo per interpretare la rabbia di chi sta in esilio, fuori della propria regione e delle proprie tradizioni. Tornato a Napoli Squitieri ha sfidato e stuzzicato il sussiego accademico, si sentiva più meridionale che mai e voleva una sanzionev GH intellettuali hanno capitolato. Ce n'era un bel gruppo in¬ torno al tavolo di Sorrento, il sociologo De Masi, l'antropologo Lombardi Satriani, il napoletanologo Ghirelli, il politologo Percy Allum. Si sentivano allo scoperto: tornare alla cultura del Sud per celebrarla? Riunirsi per festeggiarsi? Il desiderio di sfuggire alle vecchie consolazioni, ma con l'impegno a propagandare il nuovo meridionalismo, li ha spinti alla scommessa. Useranno il premio come una rete da pesca. Cattureranno non solo se stessi (gli intellettuali benemeriti del Sud) ma i gruppi, le iniziative collettive, le città intere. I nuovi meridionalisti, a Sorrento e altrove, hanno capito che c'è in gioco un'inquietudine più larga delle passate isole umanistiche. Come dire?, un'ipotesi di partecipazione che è ancora da esplorare, che magari non ha nulla da spartire coi premi, che bisogna individuare per renderla almeno complice, inchiodata alle proprie responsabilità. A Sorrento si facevano progetti: un premio al consiglio di fabbrica dell'Alfa Sud (se saprà meritarselo), un premio alla compagnia di De Simone (se insisterà a riscoprire la canzone popolare), un premio magari a qualche istituzione spontanea come quella che prese nome dai disoccupati organizzati. (Racconta Mimmo Pinto: «In autobus dire disoccupati organizzati era come mostrare il tesserino»/ Si vedrà, intanto la Regione Abruzzi ha istituito un premio di dieci milioni per segnalare ogni anno un saggio su Silone. Ma ci saranno saggi così puntuali e sufficientemente originali? Quando tocca gli enti pubblici il neomeridionalismo cade nelle più clamorose tentazioni celebrative. Silone, fino a ieri quasi misconosciuto, adesso diventa una bandiera meridionalistica. «Però al premio Napoli» si duole lo scrittore Mario Pomino «è difficile portare giornalisti e autori, preferiscono il Campiello e lo Strega». Laterza sogghigna: «Perfino quando si tratta di stampare libri gli enti locali preferiscono le tipografie del Nord». Sono le contraddizioni che ostacolano e insieme nutrono il neomeridionalismo, la sua radice nobile (il recupero della storia) e il suo antefatto emotivo (la rivendicazione dispettosa, la separatezza). Pomilio con la sua calma didascalica di meridionale importato fa un ritratto psicologico, il tormento della solitudine che isola l'intellettuale al Sud. «Forse non esiste una cultura meridionale, esistono solo i problemi che ci pesano addosso. Ci sentiamo guardati dal Nord come attraverso un cannocchiale rovesciato. Napoli soffre il suo ruolo di capitale accerchiata, di grande città di provincia e contagia con la sua frustrazione l'entroterra, il suo vecchio regno. Se non c'è dialettica, la ricerca della cosiddetta cultura meridionale diventa appunto una consolazione». Lo scrittore fa delle ricerche sul campo tra i giovani, «anche se non ci sono giovani autori che vengano a farti vedere le loro opere, a chiedere consigli, a discutere». Ha scoperto che il '68 nel Sud continua: «Il movimento della contestazione e dell'immaginazione è arrivato tardi, ma non s'è sciolto, continua soprattutto in provincia alimentando frustrazioni e ire senza sbocco». Fa degli esempi tratti dalla sua osservazione: «Mettiamo una ragazza laureata a Napoli costretta a tornare nella città d'origine, Catanzaro. I suoi strumenti culturali non le serviranno a capire la realtà che la circonda; le appariranno estranei a una borghesia pigra e sorniona, imparerà a detestare quelli che non ha capito, coltiverà l'insoddisfazione del non fare». Viene dai taccuini di Pomilio l'ombra accusatrice di una cultura depressa e irritata, non è una sorpresa. «Vado, a fare conferenze in Puglia, in Basilicata, in piccoli paesi. Vengono, partecipano, discutono, per una sera il peso delle abitudini è rotto». Poi va anche a Cosenza: «L'Università di Arcavacata mi sembra l'esempio di quello che non si deve fare, una specie di bellissimo lager nel quale non si può che imparare a odiare il Sud della realtà, il Sud che c'è intorno». Sospira Pomilio: «Non è uguale dappertutto. A Bari è diverso, Bari è un'altra dimensione». A Bari l'editore Vito Laterza ha sulle spalle il ricatto glorioso della Casa editrice di Croce, lo porta bene. «Il fatto è che la cultura meridionale è intesa spesso come un'assurda categoria dello spirito. No, bisogna uscire dalla separazione, bisogna pensare europeo se si vuole che l'integrazione culturale favorisca l'integrazione economica. Io mi vanto di tenere a Bari il mio lavoro, la mia azienda». Per forza, ha l'esempio di quel meridionalista sopra le parti che fu Croce; spiega: «Croce faceva, lavorava, Giustino Fortunato, pur insigne studioso, piangeva sulle vicende del Sud». Secondo Laterza, il vittimisino è anco- ra l'insidia maggiore del meridionalismo; meglio semplificare polemicamente i suoi difetti piuttosto che condividere le sue rare virtù. Lo storico Giuseppe Galasso che ha scritto due preziosi libricini ('Passato e presente del meridionalismo») indica la via difficile, la via mediana: «Tra la tentazione di affidarsi completamente ad una tradizione culturale minore, subalterna e il rifiuto delle proprie radici c'è un obiettivo ragionevole». Cioè: essere meridionali secondo una logica nuova, che non ritiene colpevole il Nord di ogni male, ma dà solo alla cattiva politica la responsabilità delle disuguaglianze. Cioè: non credere al mito regressivo di un Sud come terzo mondo italiano, non mettere in concorrenza il Sud con gli ideali e le illusioni terzomondiste. Aggiunge Galasso: «La ricerca delle culture locali non è solo un problema del Sud. Per noi si tratta di non cancellare l'identità storica e di vincere le frustrazioni ricorrenti». Sulla delicata mediazione può trovarsi d'accordo anche uno scrittore eurosiciliano. Leonardo Sciascia riflette: «Non vedo il pericolo separatista in questa ritrovata cultura meridionale, la vedo come ricerca di identità. Talvolta la ricerca può assumere modi subalterni, ma la sostanza è utile. Il meridionalismo è sempre stato una faccenda di pochi, è bene che adesso la consapevolezza si espanda». E poi chiarisce, con un'importante postilla ironica: «Anche per uscire dalla noia». Forse siamo giunti di nuovo al pericoloso ini2io del discorso, ai vizi e alle debolezze degli intellettuali che fanno le fortune di ogni meridionalismo; alla tentazione delle parole contro i fatti; al Sud come consolazione di un rifugio ritrovato. Ma quale rifugio? Galasso dice: «Vorrei fare una precisazione che oggi può magari provocare un sorriso. La nuova logica del meridionalismo è la logica italiana, senza lo Stato unitario chissà dove saremmo, senza la naturale sopraffazione della cultura nazionale chissà dove sarebbero i talenti meridionali, anche quelli politici». Appunto, sembra una logica fondamentale, perché ogni cultura locale sia legittimata. Fa sorridere qualcuno? Noi no. Stefano Reggiani