Come sa di snob bere il vino altrui di Francesco Rosso

Come sa di snob bere il vino altrui QUANDO L'ENOLOGO FA LEZIONE Come sa di snob bere il vino altrui L'estate se ne va, se ne è andata; l'autunno s'infiltra, subdolo in ogni suo angolo, . la prosciuga con lento, inesorabile processo, le lascia la polpa di quanto fu tumefatto rigoglio di umori. L'Astigiano spegne i suoi fulgori, i dolci colli ondulanti diventano scenari di colori e nebbie, a seconda delle ore. Perdendo i pampini che le brezze serali trasportano chi sa dove, i filari sembrano prendere le distanze l'uno dall'altro, per mettere in tutta evidenza i grappoli pesanti, colmi di succhi già in parte concentrati. Stagione favolosa, con gli alberi ancora frondosi ed i pioppi ingialliti che colmano l'aria di una nube dorata. Vorrei che a guardare questi paesaggi di colli, siepi, alberate che la leggera nebbia perlacea sfuma in differenti piani, avvolgendoli in sottili garze luminose, come negli acquerelli cinesi, venisse con me anche Cesare Ferrando, laureatissimo enologo, per cercare nelle pieghe riposte dei colli astigiani i profumi ed i sapori che sentiremo poi sciogliersi fra lingua e palato degustando un calice di Moscato d'Asti. Ma egli ha i suoi impegni rivelati da un camice candido, come d'un medico, un ginecologo, preoccupato di mettere al mondo creature il più sane possibile. E' stata una stagione un po' matta, con primavera tardiva e fredda che ha rallentato le fioriture; la vendemmia delle uve Pinot per il moscato è incominciata con un ritardo di almeno venti giorni, ed in molte zone è in pieno svolgimento. Gli altri anni, ai primi di ottobre, le uve da moscato e spumante erano già tutte raccolte, e le spigolatrici (ve ne sono ancora) già razzolavano tra i filari a cercare grappoli trascurati o dimenticati dai vendemmiatori. Allora ci sarà cattivo prodotto, vino declassato? Il dott. Ferrando sorride benevolo, non lo sorprendono le ingenuità degli inesperti. «Ha mai colto una pesca, una mela ancora un po' agre? Non sente che sono più profumate?». Così, da non iniziato ai misteri enologici, scopro che le uve da moscato e spumante, se leggermente acerbe, un po' acidule, porteranno maggior fragranza, profumo, sapidità al vino che berremo fra un anno. La visita ad Asti aveva per me uno scopo preciso; scoprire le cause per cui gli spumanti italiani, ormai, fanno premio su molti champagne francesi, anche di buona etichetta. Con la calma di un maestro che deve spiegare il perché ed il percome a chi è curioso, il dott. Ferrando mi svela i quasi misteri dei grandi vini. Lo champagne francese, tutti lo sanno, è prodotto da un vitigno di Pinot che in limitati terreni matura uve particolari, uniche, irrepetibili, scarse, quindi preziose e costosissime proprio per la loro rarità. Se i brillanti si trovassero sui greti dei fiumi sarebbero vetri; se gli champagne fossero abbondanti, sarebbero vini comuni. Tutto il gioco sta nel metraggio quudrato di quelle terre benedette che maturano i «brillanti», e quelle terre, fino ad una quindicina d'anni or sono, consentivano la produzione di nemmeno sessanta milioni di bottiglie l'anno, e continuano a non produrne di più. «Se c'è tanto champagne in commercio, significa che i terreni di produzione si sono dilatati», commenta sottovoce il dott. Ferrando; «l'avidità del guadagno ha avuto la meglio sull'onestà del produttore, il quale è andato a coltivare zone limitrofe, quando non ha comperato altri vini per fare dello champagne, così le bottiglie annue sono salite a 160 milioni. Entri in un negozio, cerchi una bottiglia di champagne normale di prezzo variante fra le sei e le ottomila lire, constaterà che non è più stampato l'anno di produzione e ciò semplicemente perché non è più champagne autentico. In questo i francesi sono seri; producono sempre champagne di grande qualità, ma bisogna pagarli più di trentamila lire a bottiglia. Chi vuol fare dello snobismo, convinto di ben figurare, acquistaquello da sei, ottomila la bottiglia, ignorando, o fingendo di ignorare, che molti nostri spumanti ottenuti con il metodo champenoise sono supe¬ riori agli champagne francesi non d'annata, di cuvée non dichiarata, e costano al massimo tremila lire la bottiglia». Eppure, noi continuiamo ad essere i più forti importatori di champagne del mondo, soltanto per snobismo. Conversando col dott. Ferrando provo come un senso di evasione, una fuga oltre le fredde pareti del sa lottino che ha lucentezze da laboratorio, verso i grassi fianchi dei colli astigiani su cui il morbido ottobre stende garze di nebbie luminose e trasparenti. «Il Moscato d'Asti — dice — può uscire soltanto da uve maturate in certe zone, non in tutto l'Astigiano, o in altre regioni. Così, i moscati d'Oltrepò, dell'Alto Adige, di San Marino hanno qualità loro proprie, ma non hanno nulla in comune con quello d'Asti. Ed è da questo moscato speciale, inimitabile, che derivano gli spumanti astigiani, che si possono produrre soltanto qui, ed hanno le qualità che tutti conoscono». Non mi considero bevitore avvertito, ma a lezione dal dott. Ferrando acquisterei in breve le conoscenze indispensabili per distinguere un vino da un altro, perché egli sa spiegare senza ricorrere a termini troppo tecnici, come si deve bere, e quando, questo o quel vino. Un esempio; il Moscato d'Asti è dolce ed è opinione diffusa che lo si debba sorseggiare al dessert con una fetta di torta, un gelato, o pasticcini. Da inesperto bevitore, confesso che anch'io ero di tale opinione. Vedo il dott. Ferrando irrigidirsi sulla sedia, fissarmi con ocelli colmi di ironica disapprovazione. Poi, come si fa coi ragazzi inesperti, mi dice: «Provi a bere un bicchiere di moscato ben gelato dopo aver mangiato una fetta di salame ed un boccone di pane. Mi dirà poi». Salame e moscato; che ne direbbero al mio paese di risaia, che considerano il moscato vino da offrire alle puerpere, da intingervi un biscottino durante le feste familiari, dopo il pranzo? Provo imbarazzo, perché sono crol¬ late molte mie convinzioni sul vino, specie su quello dolce, come il moscato. «Tanti anni or sono — dice ancora il dott. Ferrando — i nostri contadini piantavano alcuni ceppi di Pinot e si pigiavano le loro damigianette di moscato per le solennità. Non avevano frigoriferi, ma le cantine scavate nel tufo avevano temperatura e umidità giuste. Lei pensa che i contadini di allora sapessero che cos'era il dessert, il gelato a fine pranzo? Bevevano il loro moscato incredibilmente sapido mangiando salame, e fritto alla piemontese. Una volta l'anno, per la festa patronale, bevevano vino da re». S'interrompe e quasi di scatto si alza dalla sedia; il camice bianco Io avvolge come in un'armatura di sapienza. S'accosta ad un frigo che non avevo nemmeno notato, ne estrae una bottiglia di moscato che produce lui. versa in due bicchieri quel liquido dorato, che frizza nel vetro con minutissime perline di gas. Alla salute, alla salute. Bevo un sorso, poi un sorso ancora, e attendo che il palato mi riveli tutti i segreti dell'aureo liquido. «Che cosa sente?» domandò il dott. Ferrando. «Profumo di viole», risposi. «E non di rose?». Sì, anche di rose, e di non so quanti altri fion che ancora coprono con uno spolverio policromo le pendici dei colli astigiani ricoprendole di splendori opachi, come annebbiati da uno spolverio d'oro antico. Perché stiamo in questo salotto a conversare con tono accademico, perché il mio maestro e interlocutore si avvolge in quella candida corazza di sapere? Penso ad un raccolto angolo di camera, noi due a sorseggiare quel vino che sa di fiori, di frutti, di miele, sorseggiarlo soavemente pensando che la luna è già alta nel gran cielo ancora pallido sui filari ed accrescerà col suo chiarore fittizio la quieta intimità di questa bevuta. Arrivo all'ultimo sorso ed ho in bocca l'estate e l'autunno. Quale grande vino questo Moscato d'Asti. Francesco Rosso

Luoghi citati: Asti, San Marino