La rivoluzione non abita più qui di Igor Man

La rivoluzione non abita più qui A TEHERAN LA GUERRA AGGRAVA LE DIFFERENZE FRA RICCHI E POVERI La rivoluzione non abita più qui Nei quartieri alti della capitale iraniana c'è opulenza: gente elegante, gioielli, cani di razza, automobili lussuose - Nella città bassa c'è miseria, degradazione: donne ancora mortificate dallo «chador» faticano a comprare due uova -1 miserabili hanno riso e pollo a prezzi politici: lo slancio rivoluzionario si è fermato a questo - I «signorini» non vanno al fronte DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE TEHERAN — Nell'aria affilata del mattino vortica il profumo soffice dei ghotap e dei khishmishi, i buoni dolci alla mandorla. Il Parco Shainshà, ribattezzato Parco del Popolo, è invaso da cani di razza che, liberati dal guinzaglio, latrano felici nella corsa sotto gli occhi compiaciuti dei padroni: signore e signori come se ne vedono a Roma, a Villa Borghese. La divisa degli uomini è quella di rigore: giacca di tweed, pantaloni grigi di flanella, scarpe inglesi. Le donne indossano camicette firmate sopra gonne di daino, ostentano un po' troppi gioielli. Le più giovani scrollano al sole capelli freschi di parrucchiere, solo le anziane portano in testa un foulard firmato che, beninteso, non ha nulla a che vedere con l'hedyab, il velo con cui le popolane coprono il capo e il collo. Siamo a Shemiran, nella parte alta di Teheran. Per arrivarci son dieci chilometri, partendo dalla 'Città commerciale» che fa da intercapedine tra i quartieri popolari e quelli bene. Ci si inerpica su per la avenue Mossadeq ornata di tigli, ed è come fare un viaggio a ritroso nel tempo, poiché dove vivono i nuovi ricchi sembra proprio che la rivoluzione non sia passata, che la guerra non sia arrivata. Certo le automobili, anche qui, si snodano in lunghe teorie sfilando lente davanti ai distributori di benzina. Solo che al volante non siede gente collerica ma pazienti autisti, e le vetture sono americane, giapponesi, italiane. Tutte di grossa cilindrata. Sembra incredibile verificare una realtà tanto dissimile da quella vissuta con dignitosa rassegnazione dagli abitanti dei quartieri bassi, delle periferie simili a gironi danteschi. Quassù, passeggiando in una sorta di Burlington Arcade in falso stile persiano, è possibile scoprire boutiques raffinate con le vetrine zeppe degli oggetti deputati del consumismo occidentale. Alla Imperiai vendono solo roba inglese; intorno è tutto uno sfavillare di negozi che espongono moda francese e italiana, americana. E non mancano le belle scarpe italiane da donna nel negozio Delroba. Laggiù, sui marciapiedi sconnessi della Naderì, i venditori ambulanti sciorinano giacconi e scarpe da Porta Portese, da Balón. E nell'aria ammorbata dallo scappamento degli autobus stracolmi, si scioglie l'odore dolciastro delle barbabietole lessate all'aperto, unica leccornia consentita ai ragazzi meno fortunati dei loro coetanei di Shemiran i quali, all'uscita della scuola, trovano i coni gelati distribuiti da scintillanti macchinette made in •Tapan. ««Imboscati»» Nella città bassa, popolane mortificate dallo chador, uomini con la sciarpa al collo a difesa di bronchiti croniche, fanno la fila durante ore e ore, per acquistare una scatola di detersivo, due uova, un pacchetto di sigarette Azadì. Sono molte le donne in lutto perché la guerra la fanno i loro figli, mentre i signorini son riusciti a imboscarsi, perché no?, facendo i miliziani addetti al controllo del traffico: dalle sei del mattino, a causa della penuria dì carburante, alle due del pomeriggio possono circolare solo gli auto¬ bus e i taxi. E, naturalmente, quanti in possesso di una speciale autorizzazione. Non è agevole stabilire se siano più numerosi i taxi o le automobili autorizzate a circolare per motivi speciali. Nella periferia Sud il pane scarseggia ma i negozi governativi a prezzi controllati (il pollo a 1600 lire italiane) vengono riforniti quasi regolarmente di montone e di riso, grazie alla incessante spola tessuta dai Tir che portano dalla Bulgaria gli ingredienti principali della dieta iraniana. Tuttavia la fila è d'obbligo, come ai tempi della rivoluzione, e più di un tanto a testa non si può acquistare. Al contrario, la vendita è veramente libera al supermercato di Shemiran. Confesso di aver visto rare volte tanto ben di Dio in un supermercato. Mi son preso la briga di contare, tanto per fare un esempio, 69 tipi di tè, 15 dì caffè. Mostarde francesi e inglesi di 11 marche e, poi, olii italiani e greci, alcuni dei quali raffinatissimi, panettoni italiani, dentifrici e spazzolini tedeschi, questi ultimi al modico prezzo di 5000 lire italiane l'uno. A Sud manca- no le candele, qui se ne trovano persino di profumate contro il fumo delle sigarette (una stecca di americane costa 50 mila lire). Non parliamo del trionfo degli spaghetti — italiani naturalmente —, della carne di vitella, delle lingue di agnello. Ho mangiato in un ristorantino armeno della città bassa con 400 riali, ne ho dovuti sborsare 2000 per uno snack al caffè Sorrento, servito anziché da un oste straccione da camerieri in giacca rossa e cravatta nera. Le vecchie statistiche dicono che fra il 1972 e il 1975, la parte del reddito che andava al 20 per cento più ricco degli iraniani urbanizzati è salita dal 57,5 al 63,5 per cento. La parte del 40 per cento intermedio si è contratta dal 31 al 25 per cento. Il restante 40 per cento si spartiva, prima come dopo, un misero 11,5 per cento della ricchezza circolante. Riesce difficile pensare, dopo una ricognizione a Shemiran e nella città bassa, che le vecchie statistiche siano state corrette dalla rivoluzione. Semmai in peggio, se tra i quartieri bene e quelli popolari c'è una differenza media di reddito di la 7. Eppure, ancorché •clericale*, quella di Khomeini è una rivoluzione populista. Come spiegare allora l'intatta disponibilità dei ricchi, la degradazione dei poveri? La spiegazione è tanto semplice da apparir rozza: il Corano — il libro dove c'è tutto —, contempla il diritto alla proprietà privata. E cosi è accaduto, tra l'altro, che i contadini siano stati scacciati dalle terre dei ricchi, occupate sullo slancio rivoluzionario. Con disarmante candore autorevoli religiosi mi spiegano che la società islamica che essi vogliono edificare non ha nulla in comune col capitalismo, con il comunismo, «entrambi malvagi». Ma se il Corano «contempla con eguale favore la proprietà privata, la ricerca del profitto, il commercio, la condizione di salariato» (cfr. M. Robinson, Islam et capitalismo*, come si può arrivare alla promozione dei diseredati? Mediante la giustizia sociale predicata dall'ideologia coranica, ci rispondono. Senza scarpe Ma il Corano «è l'opera di un uomo. Maometto, che non poteva essere socialista perché ispirato dagli ideali del suo tempo», necessariamente assai diversi da quelli di una società come l'iraniana dove il boom del petrolio, selvaggiamente gestito dagli uomini dello Scià, ha stravolto i connotati di un'economia un tempo agricola-pastorale. Certo la rivoluzione ha trasformato la Fondazione Pahlavi in Fondazione Mostazafin (sema scarpe) e i miserabili hanno il pollo e il riso a prezzi politici; certo Bani Sadr, quand'era ministro dell'Economia, abolì gli interessi sui prestiti bancari dando un colpo duro all'usura. Ma poi? Tutto si è fermato e la guerra non è certamente venuta ad aggiustare le cose. Forse certe •contraddizioni* tanto brutali si spiegano col fatto che lo Sciismo è tutt'altro che una confessione progressista. E così è accaduto che essendosi prefisso Uro-, vesciamento di una dittatura «blasfema» ha saputo spogliarsi degli abiti tradizionali per diventare forza rivoluzionaria radicale, se non addirittura estremista. Ma per un attimo solo. Abbattuto Satana, la rivoluzione si è sfilacciata nella ricerca ossessiva di organizzare una società religiosa. Laddove quella iraniana non è una società organizzarle su basi religiose. Al contrario, è organizzata per produrre merci ed è retta da precise costanti: capitale, salario, prezzi, inflazione, commercio internazionale, finanza. Ne viene che una repubblica islamica presupporrebbe una «revisione lacerante», vale a dire, nell'attuale contingenza, «una violenza totalitaria, senza limiti» (cfr. KhosroviLeuzzi, L'Iran dopo la rivoluzione^ Forse la guerra (che il popolo iraniano meriterebbe di vincere per il suo coraggio straordinario), porterà la leadership religiosa a considerare l'ineluttabile necessità, prospettata da Bani Sadr, di abbandonare l'utopia di un isolazionismo presuntuoso per affrontare, con le debite correzioni, le realtà politiche e soprattutto sociali del mondo moderno. Sì da ricavarne il meglio, respingendone il peggio. Ovviamente la ricetta magica non può essere quella di dividere tutti i redditi in parti eguali, come ha proposto un ayatollah dimenticando la stagnazione, l'economia atomizzata. Ci sono altre soluzioni, più scientifiche, per realizzare la •giustizia sociale*. Da tempo Gunnar Myrdal ammonisce che senza, una riforma radicale delle •abitudini di consumo* ogni discorso su un nuovo ordine socioeconomico diventa pura mistificazione. Ma gli integralisti oseranno accettare la lezione degli economisti occidentali? Finora mostrano di volerla ignorare. Sicché, a un anno e mezzo dalla rivoluzione, in piena terribile guerra è possibile al cronista cogliere due flash emblematici: a Shemiran un ragazzino animoso corre con gran frastuono sulla sua fiammante motocicletta da cross, reggendosi su di una ruota sola. Nell'estrema periferia di Teheran, dove le fogne sono a cielo aperto, ragazzini coi piedi nudi arabescati di fango giocano con pupazzetti di spago, prima intìnti nello sterco e, poi, essiccati al sole. Igor Man Teheran. Due donne con il tradizionale «chador» sostano davanti a una vetrina di scarpe nel centro cittadino (Foto Grazia Neri)

Persone citate: Bani Sadr, Grazia Neri, Gunnar Myrdal, Khomeini, Robinson

Luoghi citati: Bulgaria, Iran, Roma, Sorrento, Teheran