Voglio fare politica con un romanzo di Carlo Cassola

Voglio fare politica con un romanzo Voglio fare politica con un romanzo Sta per uscire un mio romanzo. Un tempo era un avvenimento memorabile, non ce n'erano altri nella mia vita: un tempo mi comportavo come quello scrittore di cui avevo parlato da giovane, a cui non succede altro che non sia l'uscita dei suoi libri. E adesso? Non posso dire che l'avvenimento non mi affascini, ma gli dò anche e soprattutto un significato politico. Mi domando se, attraverso la lettura di un romanzo, la gente non arriverà finalmente a capire quello che mi sta a cuore di dirle. Adesso non sono un egoista che dia importanza ai fatti personali. Adesso mi stanno più a cuore quelli degli altri. Non che l'egoismo originario sia stato sconfitto; ma ho finalmente capito che la nostra vita personale non ha senso se il mondo è destinato a sparire. Ma un narratore, a differenza di un poeta lirico, non s'interessa forse degli altri? Certamente, ed è la ragione per cui ho sempre preferito la narrativa alla poesia, la poesia epica alla poesia lirica. La gente, in fondo, l'ha sempre pensata come me. Ha dato sempre più importanza a Omero che a Saffo, a Dante che a Petrarca. E di Dante, ha soprattutto apprezzato la Divina commedia, non la Vita nuova. Dante è soprattutto grande quando si occupa degli altri invece che di se stesso; laddove con Petrarca ricominciano le lamentele sui propri guai personali. Con Petrarca comincia addirittura la fiacca, l'esercitazione a freddo; la letteratura, in altre parole; e questa dei letterati è una mala genia che ha fatto sentire la propria presenza anche di recente. La letteratura, nel senso cattivo della parola, s'identifica col classicismo, cioè col malcostume, che ha dominato in Italia per cinque secoli, e negli altri Paesi quasi per altrettanto. L'iniziatore del classicismo è il primo letterato, Francesco Petrarca. Né migliore di lui è Giovanni Boccaccio, benché scriva novelle. In questo, se¬ condo me, vale sempre l'opinione del De Sanctis, che stimava Dante, mentre disistimava Petrarca e Boccaccio, al punto da scrivere: «Intenti più alla forma che al contenuto, poco loro importava la materia, pur che lo stile ritraesse della classica eleganza. Così sorsero i primi puristi e letterati in Italia, e capi furono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio». Del Petrarca scrive anche: «Gli manca la forza che abbondò a Dante d'idealizzarsi nell'universo (...) sì che la tragedia si risolve in una flebile elegìa». O anche: «.Questa concentrazione ed unità delle forze intorno a un punto solo, in che è la serietà della vita, mancò al Petrarca (...). Gli è che a quell'uomo mancava quella fede seria e profonda nel proprio mondo, che fece di Caterina una santa e di Dante un poeta». Nella narrativa ci sono tuttavia due posizioni: il disimpegno e l'impegno. Il disimpegno è chiamato anche letteratura pura e torre d'avorio. Secondo la teoria dell'impegno, lo scrittore non deve chiudersi in se stesso, ma occuparsi degli altri; cioè, occuparsi di politica (anche il narratore disimpegnato si occupa degli altri, perché non potrebbe fare diversamente: anche i personaggi autobiografici sono altri, se non altro perché hanno un nome e un cognome diversi da quelli dell'autore. Ma il narratore disimpegnato non si occupa di politica. Ritiene che l'impegno letterario sia sufficiente per lui. Insomma il narratore disimpegnato condivide col letterato la fede nella letteratura e il disprezzo per la politica). ★ ★ Metto alla prova il mio nuovo atteggiamento (che mi fa considerare più importante la politica della letteratura; e che a quest'ultima attribuisce una funzione di propaganda) nelle mie passeggiate quotidiane in campagna. La strada che faccio sempre ha da una parte, un po' rialzato, un crinale e dall'altra un avvallamento. Sul crinale c'è un podere. Anche l'avvalla¬ mento è un podere ma io, per vecchia abitudine, sono spinto a vedere la bellezza soprattutto in alto. C'è il cielo là sopra. La giornata è nuvolosa, ma non piove. Si vedono anzi, qua e là, squarci d'azzurro. Nel complesso il cielo sembra la tavolozza di un pittore, sporco com'è di nuvole scure, di sbaffature bianche e di spiragli azzurri. Mi domando, quelle nuvole lontane, dove possano essere e quali speranze possano suggerire a chi le guarda. Sono sulla pianura, questo è certo, che intorno alla collinetta in cui vivo è molto estesa. Abbasso gli occhi sulla campagna. Penso che m'è sempre piaciuto viverci (in questo sono come mio padre) e che alla fine della vita ho potuto realizzare il mio sogno. Come si vede, sono sempre in preda a pensieri personali. Abbasso gli occhi sui poderi, e in particolare su quello che si trova sul crinale. Non è diverso dall'altro, quello che si trova nell'avvallamento: ambedue sono poderi mezzadrili; ma, come dicevo, io ho maggiormente l'abitudine di guardare da quella parte. Ho fatto in tempo a conoscere il vecchio mezzadro, che tutti chiamavano Tistino. Adesso l'ha sostituito il figlio, che, suppongo, non avrà un diminutivo o un soprannome, ma sarà chiamato il figlio di Tistino. In campagna non vogliono far la fatica d'inventare un nome per tutti i membri di una famiglia. Sono ancora vivi la moglie, il figlio, la nuora e i nipoti di Tistino ma, scommetto, non vengono chiamati con un nome particolare. Un nome particolare spettava solo al vecchio, che ora non c'è più. L'imminente uscita del romanzo mi dà un brivido di gioia. Ma, a questo riguardo, sono convinto di non comportarmi più come una volta. Perché adesso prevale la soddisfazione di aver contribuito alla campagna per il progresso con un libro. Spero che la gente lo legga e capisca quello che ho voluto dire. Carlo Cassola

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