Le speranze per gli ostaggi Usa di Ennio Caretto

Le speranze per gli ostaggi Usa Le speranze per gli ostaggi Usa (Segue dalla l'pagina) sembrava questione di ore, lo scoramento si è abbattuto sugli Stati Uniti. Alla base militare di Wiesbaden, in Germania, dove i prigionieri sarebbero arrivati in caso di un sollecito compromesso, si erano già radunate decine di migliaia di persone. Di fronte alle abitazioni dei familiari dei prigionieri, vicino a Washington, i canali della televisione Usa avevano già installato le loro attrezzature. Molti avevano trascorso due notti insonni, a causa della differenza di fuso orario con Teheran, per ascoltare i notiziari radio. Tutta questa attesa è andata delusa per l'ennesima volta dalla cattura dell'ambasciata, quasi un anno fa, il 4 novembre del 79. Il «terzo uomo* delle elezioni presidenziali, il candidato indipendente Anderson, dopo un colloquio al Dipartimento di Stato, ha riassunto così l'umore popolare: «Non ci sono vie d'uscita immediate: è un momento triste». La delusione è stata acuita da una serie di notizie contraddittorie. Una, proveniente da Beirut, riferisce che due settimane fa, in occasione della visita all'Onu, il premier iraniano Rajai avvertì Carter che gli ostaggi non sarebbero stati liberati prima del 4 novembre, perché ^'ayatollah «non intendeva influenzare il voto americano». Un'altra notizia, smentita dalla Casa Bianca, vuole che lo stesso Carter abbia inviato una lettera a Rajai accettando tre delle quattro condizioni poste da Khomeini per il rilascio dei prigionieri, cioè lo scongela-1 mento dei fondi dell'Iran negli Stati Uniti, la rinuncia al risarcimento danni e la garanzia di non interferenza. Sulla quarta condizione, la restituzione dei beni dello Scià, il presidente avrebbe spiegato di poter mettere a disposizione solo «strumenti legali per ottenerla». Il governo americano afferma tuttavia di «conservare intatte le speranze» di una sollecita soluzione della crisi. Nella sua intervista televisiva, Mondale ha ricordato che «segnali di distensione sono giunti da Teheran negli ultimi giorni... Ma solo i grandi mezzi di informazione di massa hanno rafforzato inutilmente l'ottimismo generale». Il governo, ha aggiunto, è sempre stato cauto. Il segretario dell'Onu, Waldheim, ha assunto una posizione analoga: «Il Parlamento iraniano prenderà una decisione presto — ha detto—quando esattamente non sappiamo». Ha espresso il parere che «contatti indiretti siano in corso tra Washington e Teheran con andamento positivo». Waldheim ha insistito sul fatto che la normalizzazione dei rapporti tra Iran e Stati Uniti «potrà contribuire a fermare la guerra del Golfo Persico». La «modesta fiducia» dell'amministrazione Carter, come l'ha chiamata la Washington Post, viene anche dagli sforzi che Washington sta compiendo per persuadere il regime dell 'ayatollah che potrebbe essergli di aiuto. Domenica, ad esempio, Carter ha reso noto di aver rifiutato una richiesta dell'Arabia Saudita per l'ammodernamento dei suoi cacciabombardieri, cosa che avrebbe allarmato gli iraniani. Il suo consigliere politico, Brzezinski, in un discorso a Denver, ha inoltre ribadito che «la stabilità del Golfo» è legata a Khomeini, ed è l'interesse principale degli Stati Uniti. Brzezinski ha dichiara¬ to che negli Anni Ottanta la presenza militare americana non potrà manifestarsi solo in Europa e In Estremo Oriente, ma anche in Medio Oriente. Questi tentativi Usa di allargare il colloquio con l'Iran e investirlo di un significato politico preciso — il contenimento dell'Urss e dei suoi alleati — hanno irritato l'Iraq. Il ministro degli Esteri iracheno, Hammadi, ha denunciato il delinearsi di un '«alleanza» tra Washington e Teheran, alleanza che, ha ammonito, potrebbe coinvolgere le superpotenze nel conflitto. E' inevitabile perciò che, nel dibattilo televisivo di stanotte a Cleveland, Carter e Reagan si scontrino su questo terreno. Il problema degli ostaggi dell'ambasciata Usa è più che mai determinante agli effetti delle elezioni. Il presidente sembra avere colmato lo svantaggio per quanto riguarda il voto popolare, ma non quello dei cosiddetti grandi elettori. Tutti concordano sul fatto che, a questo punto, se i prigionieri venissero rilasciati il presidente vincerebbe, mentre, se non lo fossero, rischierebbe di perdere. Ennio Caretto