Chi taglia la lingua ai giornali di Vittorio Gorresio

Chi taglia la lingua ai giornali Taccuino di Vittorio Gorresio Chi taglia la lingua ai giornali Quando era ancora guardasigilli nel governo Cossiga bis pare che il ministro Tommaso Modino avesse allo studio vari progetti di riforma tendenti a meglio difendere la magistratura da ogni tentativo di controllo sul suo operato. La notizia è stata data nell'ultimo numero di Stamparomana, mensile dell'Associazione romana dei giornalisti, dove Giovanni Buffa ci informa che il ministro stava cercando di ottenere ai suoi progetti «una specie di "autorizzazione preventiva" in certi ambienti di stampa o da alcuni giornalisti specializzati. Nessuno di noi, come singolo o come membro di organismi associativi, deve cadere in una trappola del genere», ammonisce Buffa. Ora Modino non c'è più, è lecito sperare che il suo successore Adolfo Sarti sia alieno dal far propri simili progetti, ma non per ciò si deve ancora stare certi che il pericolo di una restrizione della libertà di stampa (poiché di questo in realtà si tratta) sia del tutto sventato. Due sono i dati incontestabili nella situazione di oggi: fioccando come fioccano i procedimenti giudiziari a nostro carico non pochi giornalisti hanno cominciato ad autocensurarsi in termini di qualità e quantità delle notizie di cui vengono in possesso, sicché la stampa potrebbe gradualmente ridursi a fungere da servizio diffusionale di «veline» gradite ai due poteri, giudiziario ed esecutivo. E questo è il primo rischio. Il secondo elemento di fatto da prendere in considerazione è certamente non meno grave. Si ha qualche sintomo di una tendenza che sta manifestando una parte della magistratura a sostituirsi al legislatore attraverso sentenze «interpretative» scritte sull'onda di un'emozione del momento o di una convinzione personale in contrasto con la lettera chiara della legge, a discapito di quella che dovrebbe essere la certezza del diritto, esigenza giuridica inderogabile che purtroppo in Italia è soltanto un bel sogno. Il caso Isman-Russomanno ce ne ha offerto un esempio istruttivo e agghiacciante. Si può riassumerlo in breve: il redattore del Messaggero era stato condannato dal tribunale di Roma essendo stato ritenuto colpevole di aver violato il segreto d'ufficio con la pubblicazione dei verbali di interrogatorio di un terrorista pentito, Patrizio Peci. Li aveva avuti — come è noto — dal vicecapo del Sisde, Silvano Russomanno, e nel darne notizia aveva evidentemente contravvenuto alla norma che vieta la rivelazione degli atti di un procedimento giudiziario. Pena prevista dal codice per il reato commesso da Isman: un'ammenda di 300 mila lire. E ben gli sta. Il tribunale, invece, lo aveva ritenuto corresponsabile con Russomanno nella rivelazione degli atti d'ufficio, supponendo fra i due l'esigenza di un pactum sceleris vero e proprio, immaginando Isman corruttore, subornatore, ricattatore di Russomanno, se non addirittura ladro di documenti riservati. Mancava ogni indizio, ma il tribunale è stato severo ed ha condannato Isman a una pena dura, negandogli persino quella sospensione condizionale che in genere è concessa a tutti quanti, fatta però esemplare eccezione — in questi tempi — per i giornalisti. La corte d'appello ha riformato la sentenza, riportandola nel quadro della legalità obbiettiva, e cioè respingendo l'applicazione a carico di Isman di una norma inesistente. Deve aver ritenuto, come ha osservato Guido Guidi nel già citato numero del mensile Stamparomana, che fosse per lo meno eccessivo configurare l'ipotesi che «l'eventuale succu¬ bo di Fabio Isman fosse addirittura il vicecapo del controspionaggio italiano, e pensare che Russomanno, forte della sua esperienza professionale, potesse essersi lasciato suggestionare da un giornalista», per quanto bravo come Isman in raccolta e incetta di notizie. Ma a questo punto ha inizio il terzo atto della vicenda non ancora conclusa, perché la procura generale ha presentato ricorso in Cassazione, e solamente fra qualche mese sapremo quindi se ha avuto torto il tribunale a essere severo o la corte d'appello a dimostrarsi legalitaria. Nell'attesa, comunque, Giovanni Buffa ha scritto che il «non accetto» della procura è un fatto politico più che giudiziario: «E' un ricorso diretto a far mutare giurisprudenza alla Cassazione, a estendere i limiti dell'applicabilità dell'articolo 326 al di là della lettera e della prassi consolidata, sostituendo una "interpretazione" alla volontà del legislatore». L'art. 326 è quello che colpisce la rivelazione di segreti d'ufficio e ne fa colpevole soltanto un pubblico ufficiale; il richiamo alla prassi consolidata è un riferimento alla sentenza con cui la Cassazione in dicembre del 1967 sanciva che «l'estraneo» non può essere ritenuto responsabile «per il fatto di avere ricevuto la notizia segreta». Ma ricomincia l'assalto per ottenere in sede giudiziaria sanzioni che in modo surrettizio compensino la mancata riforma progettata — a quanto sembra — da Morlino per restringere i limiti della libertà di stampa e di controllo sull'operato della magistratura. Sia chiaro a questo punto che se i giudici credono giusta od opportuna una riduzione della nostra libertà essi hanno il pieno diritto di far pervenire al Parlamento tale istanza attraverso il loro organo di autogoverno. In sede legislativa simile istanza non mancherà di essere dibattuta e democraticamente accettata o respinta. Quello che i giudici non possono — sunt denique fines anche per i poteri sovrani — è procedere per vie traverse, usando mezzi costituzionalmente scorretti e diseducativi in quanto solo intimidatori.

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