E per dispetto, guerra alla Grecia di Giuseppe Mayda

E per dispetto, guerra alla Grecia A 40 ANNI DALL'AVVENTURA CHE CI COSTO* 100 MILA PERDITE (MORTI E FERITI) E per dispetto, guerra alla Grecia Di fronte ad un Hitler sempre più potente, Mussolini vuole rifarsi, con una facile vittoria, degli insuccessi subiti sulle Alpi, in Africa e sul mare - Ma i greci resistono all'attacco sferrato con forze insufficienti -1 milioni di Ciano per corrompere Metaxas non sono serviti: i nostri soldati vengono fermati e ad Atene arrivano i Panzer tedeschi II bollettino n. 144 del Comando supremo italiano, trasmesso martedì 29 ottobre 1940 col giornale radio delle 13, annunciava: «All'alba di ieri le nostre truppe dislocate in Albania hanno varcato la frontiera greca e sono penetrate per vari punti nel territorio nemico; l'avanzata continua». Cominciava così, quarantanni fa, la più tragica fra le avventure militari del fascismo: quella di Grecia, una guerra che avremmo vinto soltanto grazie all'intervento tedesco pagandola però con 13.755 morti, 52.000 feriti, 12.100 congelati e 25.000 dispersi L'obiettivo Mussolini, nel discorso del 18 novembre 1940 — quello in cui prometteva di 'Spezzare le reni alla Grecia» — sosterrà la tesi che la guerra era stata necessaria perché ormai il governo di A tene era in pratica passato nel campo nemico; ed effettivamente, dai documenti segreti ritrovati dai tedeschi a Vitry-laCharité, emergeva la tendenza greca ad appoggiarsi, sempre più, dalla primavera '40, a inglesi e francesi Ma la verità sulle origini del conflitto è un'altra. Innanzi tutto la guerra in Europa, che per l'Italia non va bene: dalla battaglia delle Alpi Mussolini ha tratto una modestissima vittoria e nessun vantaggio vero; in Cirenaica Graziani malgrado mesi di preparazione, si è soltanto timidamente affacciato al confine egiziano; la marina e l'aviazione hanno deluso a Punta Stilo e a Capo Teulada. Cosi costretto a dare di sé l'immagine di guerriero vincente, il fascismo è andato a caccia di un successo facile e ha creduto di trovarlo nell'area tradizionale dei nostri interessi i Balcani indorando l'obiettivo — agli occhi dell'alleato — col paragone strategico che la Grecia sta al Mediterraneo come la Norvegia stava al Mare del Nord: insomma, spiega Mussolini se l'Italia occupa la Grecia può creare un perimetro Taranto-Tripoli-Egeo capace di imprigionare gli inglesi nel 'Cui de sac» mediterraneo fra Cipro e Alessandria. Parole, si capisce. In realtà il Duce è mosso dall'invidia per le folgoranti vittorie tedesche e dal rancore verso un Hitler che lo mette sempre davanti al fatto compiuto (Renania, Dolfuss, Austria, Sudetì, l'attacco a ovest). Ora che la Germania ha occupato all'improvviso la Romania, Mussolini decide di replicare con l'avventato attacco alla Grecia: «Questa volta —confida a Ciano — pago il Fuehrer della stessa moneta: saprà dai giornali che ho occupato la Grecia». Giustamente Hitler lamenterà in seguito — nelle lunghe conversazioni serali nel suo squallido quartier generale della Prussia — gli errori insiti nell'iniziativa italiana: una guerra cominciata nella peggiore delle stagioni, quella dell'autunno del fango, quindi con poche probabilità di trasformarsi in un « blitz- e che ha consentito agli inglesi di ricevere da Atene le basi aeree dalle quali minacciare i preziosi pozzi petroliferi romeni Non solo: parecchie nazioni europee (Turchia; Spagna), di fronte alla cattiva prova militare dell'Italia, hanno accentuato la tendenza a non impegnarsi prematuramente con l'Asse. La Grecia del 1940, regnante Giorgio II, ha un regime filofascista capeggiato dal dittatore Giovanni Metaxas, ex generale divenuto uomo politico, che ha fatto la sua marcia su Roma il 3 agosto 1936 e che dal nostro fascismo (è stato in Italia quattro anni) ha mutuato parecchie esteriorità, dal saluto romano all'Opera nazionale Balilla. Motivi fondamentali di attrito fra Roma e Atene non ve ne sono ma Mussolini pensa che, facendo leva sull'irredentismo della Ciamuria e ricorrendo alla corruzione, la Grecia sarà una facile conquista. Questa della corruzione è da tempo una balorda idea di Ciano e della sua corte di giornalisti diplomatici 'Viveurs-, affaristi politici di second'ordine (e non staremo qui a raccontare le storie di Curzio Malaparte, le infondate vanterie del bey ciamuriota Dino o i maneggi di Jacomoni governatore d'Albania). Badoglio riferisce nelle memorie — per quanto possano risultare attendibili su questo specifico punto — che Ciano gli confessò di «avere ormai dalla sua parte diverse notabilità greche, alcune facenti parte dell'attuale governo, per il rovesciamento del governo stesso e per il passaggio della Grecia dalla nostra parte». Al vecchio maresciallo il genero del Duce disse che per tutta quest'opera di corruzione aveva dovuto sborsare undici milioni e Badoglio, da piemontese parsimonioso, commenta: «Gli è costato un po' caro ma il fine giustifica la spesa». Questa è, dunque, la guerra di Ciano e cosi verrà chiamata sottovoce in Italia nei mesi neri dell'inverno 1940-1941 quando la Julia sarà decimata sul Pindo, quando i greci entreranno in Albania dalla Macedonia. Ma a una guerra, cosi incoscientemente voluta, occorre anche un comandante dello stesso livello: non Badoglio, stratega che vede i nostri limiti anche se per amor del posto gli manca il coraggio di rivelarli; non Caviglia, chiuso forzatamente nel suo sdegnoso esilio ligure; non Guzzoni che malgrado la pancetta e il parrucchino lamentati da Ciano è uomo capace. La scelta cade su Sebastiano Visconti Prasca, capo delle truppe d'Albania, un generale che, come si vedrà, combatte (o finge di farlo) tenendo d'occhio l'annuario militare. Pur sapendo infatti di aver di fronte 14 divisioni ternarie, cioè di tre reggimenti (lo ha comunicato uno dei pochi esperti militari veramente seri, il nostro addetto ad Atene, Mondini) Prasca si accontenta di un piano d'operazioni basato su sole otto divisioni binarie (Piemonte, Parma, Siena, Ferrara, Centauro, Julia, Venezia, Arezzo) per un totale di 87 mila uomini cui si aggiungono i 5000 del Raggruppamento del Litorale e i 6-7 mila stanziati sul fronte con la Jugoslavia. Il generale Centomila soldati sono pochi anzi pochissimi per un terreno come quello greco, tutto gobbe e anfratti valli profonde, montagne asprissime, torrenti come la Vojussa, il Kalamas e il Sarandaporos che si trasformano facilmente, con una pioggia, in fiumi tumultuosi e invalicabili. Sono pochi anche perché la Centauro, definita divisione corazzata, in realtà ha un centinaio di carri leggeri (le solite 'Scatolette di sardine-), 24 pezzi di artiglieria e altrettanti di controcarro; una forza, insomma, inferiore a quella di una brigata. Ma Prasca giura a Mussolini Ciano, Badoglio e Jacomoni nella riunione a Palazzo Venezia del 15 ottobre '40, che con questo esercito non impiegherà più di due settimane a mettere in ginocchio la Grecia. Il fatto è che Prasca, generale di corpo d'armata, sa benissimo che se le forze a sua disposizione dovessero diventare ingenti per numero e per mezzi rischierebbe di vedersi passare davanti al comando, un ufficiale più alto in grado di lui o più anziano: per questo dice che 100 mila uomini gli stanno bene. Ultima beffa Alle 2,30 del mattino di lunedi 28 ottobre 1940 il ministro d'Italia ad Atene, Grazzi, va a svegliare Metaxas nella sua villa di Kifisià, il sobborgo elegante della capitale. Al dittatore, da tempo malato (non vedrà la fine della guerra; morirà il 29 gennaio 1941), Grazzi consegna l'ultimatum italiano in cui si accusa la Grecia di violare la neutralità e si chiede di occupare, per tutta la durata della guerra, «alcuni punti strategici del territorio greco». L'ultimatum scade alle 6, cioè di lì a tre ore e — anche se Metaxas volesse accettarlo — manca il tempo materiale di avvertire il re e il Consiglio dei ministri e di dare l'ordine alle guarnigioni di frontiera. «E poi — chiede Metaxas — quali sono i punti strategici che l'Italia vorrebbe occupare?». Grazzi uomo onesto ed equilibrato, che invano ha cercato di dissuadere Ciano da questa folle impresa (e perciò ci rimetterà la carriera) non sa che cosa rispondere. «Alors, c'est la guerre» conclude Metaxas. Tre ore più tardi sotto una pioggerella gelida e penetrante, le prime sei divisioni italiane muovono su un fronte di 250 km, dal massiccio del monte Grammos al mare. La data dell'attacco — 28 ottobre — non è stata scelta a caso e non soltanto perché ricorre il diciottesimo anniversario della marcia su Roma. Il motivo principale è un altro. Hitler, contrario a una nostra azione in Grecia (perché, ha detto a Mussolini in luglio, «attribuisco la più grande importanza al mantenimento della pace nel settore danubiano-balcanico»; ha posto —come narra Ciano nel diario — un «alto là su tutta la linea» non appena ha saputo che i propositi bellicosi dell'Italia si vanno concretando in preparazioni militari Per aggirare questa specie di divieto tassativo, il 19 ottobre Mussolini ha scritto una lettera al Fuehrer informandolo di aver preso la decisione di «rompere prestissimo gli indugi» con la Grecia ma l'ha fatta partire soltanto il giorno 22, mentre cioè il dittatore tedesco è lontano da Berlino, si trova in Francia per incontrare Pétain e Franco, n 25, finalmente, la missiva raggiunge Hitler che, intuendo la mossa dell'alleato, si precipita in Italia col suo treno speciale Arriva tardi però. Un Mussolini sorridente e soddisfatto di sé lo accoglie alla stazione di Firenze il 28 ottobre annunciandogli: «Fuehrer, stiamo marciando. All'alba di stamane le truppe italiane vittoriose hanno attraversato la frontiera greco-albanese». Il dado è tratto. Questa guerra, tanto sanguinosa quanto inutile, che sarà combattuta più in Albania che in Grecia e non vedrà mai una vittoria italiana, durerà 117 giorni fino al 21 aprile 1941. Solo allora il massacro cesserà e— come ultima beffa — t greci si arrenderanno alle truppe tedesche: Mussolini dovrà umiliarsi a chiedere a Hitler che anche un generale italiano possa controfirmare l'armistizio. Giuseppe Mayda