E' riaperto il caso Montesi di Francesco Rosso

E' riaperto il caso Montesi STASERA ALLA TV, VENTITRÉ' ANNI DOPO IL PROCESSO E' riaperto il caso Montesi Sulla battigia di Tor Vaianica si scoprì il cadavere di Wilma, una bella ragazza di venf anni - Fu una rivista a riferire «voci» secondo le quali era stato un delitto - Una supertestimone, Anna Maria Moneta Caglio, parlò di droga, coinvolse ministri: il Paese fu scosso - Lo scandalo ebbe un regista occulto? Ritorna il «coso Montesi», rievocato da questa sera sul secondo canale tv, ventitré anni dopo il processo di Venezia. Nessun processo del dopoguerra fece clamore come quello che si svolse fra gennaio e maggio del 1957; attorno al cadavere di una ignota ragazza popolana vorticarono ministri, prefetti, questori, sfilarono centinaia di testimoni in buona parte deliranti, balenò nell'aula di giustizia persino la bianca cotta di papa Pio XII, si evocò l'ombra di De Gasperi, comparvero due colti gesuiti, padre Rotondi e padre Dall'Olio, stranamente solleciti a credere ai racconti di Anna Maria Caglio, ragazza dal passato turbinoso, ma divenuta presto -la figlia del secolo», il -Cigno nero», -la fustigatile», eccetera. Irritata amante giubilata di Ugo Montagna, forse sema prevedere quale macchinosa vicenda metteva in moto, disse e scrisse che il marchese era un trafficante di droga (allora era di moda la cocaina) specializzato nell'irretire ingenue ragazze, drogarle fino a morte, facendole poi scomparire. Che il musicista Piero Piccioni, autore di colonne sonore di film, figlio del ministro Piccioni, aveva drogato Wilma Montesi, l'aveva portata sulla spiaggia di Tor Vaianica ancor viva e l'aveva gettata in mare. Cile il questore di Roma, Saverio Polito, aveva protetto i due non denunciandoli, e bruciando in questura il reggicalze di Wilma Montesi E quale peso ebbe quel reggicalze durante l'istruttoria e il processo lo sa chi dovette sorbirsi decine e decine di perizie contrastanti sul come e perché quell'indumento intimo, che ci doveva essere, non c'era più. Dopo alcune udienze, la tragedia di Wilma Montesi e la sua morte, passarono in seconda linea, e incominciò una macabra sceneggiata che non si è ancora conclusa perché nessuno fu in grado di stabilire né l'ora, né il giorno (fu il 9 aprile, oppure il 10?), né la causa della morte della sventurata ragazza. Si appurò soltanto che era morta annegata. Qualcuno afferma che il «caso», per il quale tremarono tante poltrone ai vertici della politica, fu guidato da un manovratore sapiente; lo ha dichiarato esplicitamente nel 1974 Von. Giulio Andreotti in un'intervista al quotidiano genovese Secolo XIX rispondendo a una domanda sui -pretori d'assalto» per la vicenda dei petrolieri: «Potrebbe essere un caso guidato da un regista occulto, disse, come nel caso Montesi». E se lo diceva lui, i dubbi non erano più consentiti. Il nome del regista fu sempre pronunciato a bassa voce, ma senza esitazioni, dagli amici dell'on. Attilio Piccioni; il bersaglio della macchinosa sceneggiata, non era suo figlio, ma proprio lui, noto esponente de, designato erede di De Gasperi. Infatti, Von. Piccioni non si riprese più politicamente e morì quasi dimenticato. Nel pomeriggio del 9 aprile 1953, Wilma Montesi, bella ragazza poco più che ventenne, usci dalla sua casa in via Tagliamento 16. La ritroverà, due giorni dopo, galleggiante sull'acqua presso la battigia di Tor Vaianica, verso le 7,30 di mattina, il giovane manovale Fortunato Bettini. Che fosse morta annegata lo provò la perizia necroscopica; ma come mai la ragazza era finita a Tor Vaianica? I parenti dissero che soffriva di eczemi ai talloni, e andava ad Ostia per un pediluvio di mare. Ad Ostia, non a Tor Vaianica, distante 12 chilometri. Le correnti marine, si disse. Si era sentita male, era caduta ed annegata. Qualcuno sostenne la tesi del suicidio. Il caso fu archiviato; «morte accidentale per annegamento». Dolce vita Nessuno parlò più di Wilma Montesi, ma a Roma, negli ambienti di Piazza San Silvestro, dove era la Sala Stampa, incominciò a circolare la voce che Piero Piccioni era implicato nella vicenda. La voce diventò rumore e il giornalista Silvano Muto, singolare free lance, fondatore, direttore e redattore della rivista Attualità, il 4 ottobre scrisse un articolo dal titolo -La verità sulla morte di Wilma Montesi», raccogliendo le voci di un -piccione» viaggiatore che portava il reggicalze della morta sul tavolo del questore di Roma: l'aperta denuncia che Piero Piccioni aveva ucciso Wilma Montesi, che il questore Saverio Polito insabbiava le indagini per proteggerlo. Silvano Muto aggiunse che in un villino della tenuta di Capocotta, poco lontano dal luogo ove la Montesi era stata trovata morta, si organizzavano orge dionisiache a base di cocaina. Muto fu incriminato per diffusione di noti- zie «atte a turbare l'opinione pubblica». Al processo che ne seguì, scoppiò lo scandalo: Muto citò come testimone Anna Maria Moneta Caglio, non ancora-figlia del secolo» la quale, candidamente, disse che Ugo Montagna era un assassino in grande, e Piero Piccioni assassino in dettaglio; aveva ucciso lui Wilma Montesi durante un droga party. Indirizzata da non si.sa chi, la Caglio andò a parlare col padre gesuita Alessandro Dall'Olio, raccontò di un colloquio notturno che Montagna e Piccioni avrebbero avuto con l'ex capo della polizia e prefetto Tommaso Pavone, un incontro al ministero dell'Interno. Padre Dall'Olio si fece accompagnare da padre Virginio Rotondi per «svolgere un'indagine» al Viminale. Il segretario del ministro dell'Interno, Raineri Dolci, pare abbia confermato la data e l'ora del compromettente colloquio. Forti di quella dichiarazione, i due gesuiti andarono diritti dall'on. Fanfara, che in quel momento era ministro dell'Interno e gli ripeterono i foschi dettagli della tenebrosa vicenda. Fanfani incaricò il colonnello dei carabinieri Pompei, promosso presto generale, di svolgere un'inchiesta. «Non abbia riguardi per nessuno», gli disse. E biblicamente aggiunse: «Chi è caduto in buona fede si salverà, chi in mala fede andrà a fondo». Il prefetto Pavone si dimise e l'indagine fu avviata. Dell'istruttoria fu incaricato il giudice Sepe, nome diventato presto sinonimo di intransigenza contro i corrotti; interrogava tutti, ascoltava tutti, verbalizzava tutto. Divenne talmente popolare che fu avanzata la proposta di nominarlo Presidente della Repubblica. La Caglio divenne l'idolo d'Italia benché fosse stata amante di Ugo Montagna, siciliano, marchese di San Bartolomeo, arricchitosi rapidamente, frequentatore di anticamere ministeriali. Aveva avuto come amante Anna Maria Moneta Caglio, a mezzo milione al mese, sì divertiva come gli pareva, andava a caccia nella tenuta di Capocotta. Era un protagonista della Roma di allora, così poco diversa da quella di oggi, città in cui la cocaina si fiutava a chili e lo champagne scorreva a fiumi. Le follie avevano corso legale fra attori e attrici che frequentavano i night clubs prossimi a Via Veneto; tutta materia che sarebbe entrata nel felliniano La dolce vita, apparso tre anni dopo il processo. Nel -caso Montesi» entrò anche Alida Valli, amica di Piero Piccioni. L'attrice scomparve da Roma proprio nel momento in cui Piccioni doveva provare che la sera del 9 aprile, quando la Montesi era morta, si trovava suo ospite ad Amalfi, e il fatto parve singolare. Lo scrissi su La Stampa e da Parigi Alida Valli mi inviò questo telegramma: «Ci sarò. Non dubiti, ci sarò». Infatti, venne a deporre a Venezia confermando la presenza di Piccioni ad Amalfi, afflitto da una dolorosa angina autenticata da un referto medico. Attorno a lei spuntarono mitomani, che il giudice Sepe ascoltava attentamente. Il più celebre e sfortunato fu Ezio De Sanctis, noto a Milano come -il mago Orio». Con sicumera il -mago» sostenne di aver ricevuto per un consulto, contemporaneamente. Montagna, Piccioni, la Caglio e la Montesi proprio la sera del 9 aprile, quando la Montesi era scomparsa. Si beccò 18 mesi di carcere per falsa testimonianza. Altro veggente, nazista, autore di un libro in cui sosteneva che Hitler era vivo al o a r ri o i e Polo Nord, Natalino Del Duca, affermava che l'agente di P.S. Francesco Servello gli aveva confidato di aver visto il questore Polito bruciare il reggicalze di Wilma. Assolti Un detenuto, Michele Simola, venne da non so quale carcere siciliano per dire che Wilma Montesi era sua amica, frequentava la casa ospitale di Anna Pantaleoni, ed era una notoria spacciatrice di droga. Era il giro delle voci che cresceva, cresceva come una valanga, coinvolgeva frati, suore, veggenti, mezzi matti e matti interi, faceva spuntare mitomani, travolgeva l'Italia in un tanfo di corruzione irrespirabile. E l'Italia voleva incidere quel bubbone, liberarsi da viziosi e disonesti, demolire tutte le Capocotte. Ci fu un sopralluogo nel famoso villino delle orge: uno squallido ripostiglio per attrezzi agricoli, con una camera da letto ancor più squalli¬ da, dove Anna Maria Moneta Caglio, la fustigatrice, pernottava talvolta con Vaman-te Ugo Montagna. Il processo srotolava ì suoi colpi di scena in cui dominava la follia, ma non offriva indizi di colpevolezza. Mai si potè provare che Montagna, marchese quasi palazzinaro, e Piccioni, avevano conosciuto o frequentato Wilma Montesi. Eppure, qualcuno doveva sapere della morte di quella ragazza della quale, ormai, ci si era persino dimenticati per concentrare la curiosità sui testimoni fantasiosi. E alla ribalta apparve -Zio Giuseppe», portatovi dai due giornalisti, Menghini e Doddoli. Era un tipografo bulletto, conquistatore di periferia, con un'amante e un figlio. Aveva sedotto anche la nipote Wilma, l'aveva lasciata morire, l'aveva gettata in mare? Giuseppe Montesi disse no, e no, che con la nipote, figlia del fratello, non aveva mai avuto rapporti men che onesti. Infatti, l'autopsia aveva confermato che Wilma era morta incontaminata. E allora? La Corte d'Assise assolse gli imputati con formula ampia, ma lasciò un dubbio sulla morte della ragazza. Uccisa? Suicida? Morta per disgrazia? Mistero. Fu però palese che una certa classe politica italiana aveva giocato un ruolo infame in quella tragica vicenda, sfruttandola per ignobili scopi di -poltrona». Quando chiese l'assoluzione piena dei tre imputati, il p.m. Palminterì pronunciò una frase che lasciò perplessi. I giudici dovevano assolvere degli innocenti, disse allincirca ma, aggiunse: «Nessuno si attenda che dall'aula di Venezia esca una sentenza di condanna della società italiana». Il che, riecheggiando un poco Shakespeare e Amleto, significava che di marcio ve n'era tanto, ma che non toccava ai giudici veneziani pronunciarsi sui protagonisti, quasi tutti fuori dell'aula e molti ormai morti, che avevano creato il -caso Montesi». Francesco Rosso Wilma Montesi e Anna Maria Moneta Caglio: fu il più clamoroso processo del dopoguerra