Difendo Verdi e «Otello» di Massimo Mila

Difendo Verdi e «Otello» UN'ANTEPRIMA DAL NUOVO SAGGIO DI MASSIMO MILA Difendo Verdi e «Otello» L'arte di Verdi si intitola il nuovo saggio di Massimo Mila che esce da Einaudi alla fine del mese. Per gentile concessione dell'editore, ne pubblichiamo in anteprima due brani tratti da capitoli diversi, dedicati a «Otello» e a «Verdi sacro». Dall'errore ingegnoso viene spesso fuori il bandolo della verità. Tra i più sottili detrattori di Otello si è posto di recente un giovane musicologo di grande valore, la cui polemica antiboitiana guida senza volerlo verso una migliore, e positiva, interpretazione dell'opera. Per Francesco Degrada «la ferale presenza di Boito», tacciato — chissà perché — di «tetri umori» (quasi che Verdi fosse un buontempone), fa si che il libretto di Otello si inserisca «in maniera atipica nella storia della drammaturgia verdiana». In maniera atipica. Accettiamo questa indicazione e cerchiamo di farne buon prò. Se ne deduce un primo dato di fatto: quello che i patiti della cabaletta non perdonano al Verdi di Otello è di essersi trasformato coi tempi e di non avere continuato a scrivere Ernanie Trovatori nel 1887. «Testimonianza mirabile — nella sua esemplarità — del gusto dell'Italia umbertina, l'Otello di Boito è un'antologia a suo modo strepitosa di alcuni motivi centrali della grande esperienza del decadentismo europeo». Verissimo. Naturalmente è appena il caso di ricordare che decadentismo non vuol dire decadenza. E' semplicemente la designazione di un gusto e di uno stile, come il barocco o il gotico, dentro il quale c'è posto per capolavori come per fallimenti. Incidentalmente, è il gusto entro il quale si pone la quasi totalità dell'arte moderna. Ma non è solo l'Otello di Boito a parteciparne. L'Otello di Verdi e di Boito. Perché non è vero che nell'Otello si stabilisca «una differenza profonda e sostanziale di tono tra libretto e musica», U che significherebbe la più recisa condanna dell'opera. Già si è visto come il carteggio Verdi-Boito smentisca categoricamente l'asserzione che «l'operazione consueta a Verdi di ridurre il librettista a un mero esecutore di direttive» non abbia funzionato nella maniera consueta durante la collaborazione con Boito. Verdi lavora con Boito tal quale come lavorava con Piave (e in maniera molto meno riguardosa di quanto facesse col Cammarano). Né è da intendere come ini ziativa arbitraria di Boito il eli ma liberty della Serenata a Desdemona, quando essa appare, «angiol soave e biondo», nella luce primaverile dell'isola di Cipro, e «neogotiche guzle, arpe e mandole celebrano trionfi di puro segno floreale». Già abbiamo visto quanto Verdi se ne fosse compiaciuto. Il fatto è che quando Verdi compone l'Otello siamo, per l'appunto, nell'Italia umbertina; non più nell'Italia di Carlo Alberto. Ci sarà davvero, ne 11'Otello, «l'uso di un'imponente simbologia cattolica, che congiunge amore e morte, fede e bellezza, lussuria e disfacimento, sensualità e languore in un impasto forse non ingrato — qualità a parte — al giovane Gabriele D'Annunzio»? Supponiamo che ci sia, forse non in misura così imponente. Se c'è, a Verdi gli sta benissimo anche questo. La simbologia cattolica non gli aveva mai fatto paura, dai Lombardi alla Forza del destino. E poi c'era stata la Messa da Requiem. ★ ★ Censure di questo tipo sono preziose. Tutte infatti convergono a additare nell'Otello un capolavoro dell'arte moderna: precisamente una stazione memorabile di quella «grande esperienza del decadentismo europeo», sul cui abisso Verdi si era già chinato col Don Car'lo. E' necessario perciò ribaltarne l'interpretazione convenzionale. Otello non è, o non è soltanto, il dramma selvaggio della gelosia. In ogni caso la gelosia di Otello non ha più niente da vedere con la gelosia del Conte di Luna o del vecchio Silva. L'esplorazione dell'inconscio, nei recessi più profondi delle sue contraddizioni, subentra alla psicologia sommaria del teatro dei burattini, e impone l'adozione di mezzi musicali adeguati, appunto la tastiera multiforme dei registri vocali e quel cosiddetto potenziamento dell'orchestra, che in realtà è istituzione d'una nuova polifonia nel rapporto tra voci e strumenti. (Potenziare l'orchestra non significa semplicemente aumentarne l'orga¬ natdllcspqtlra nico e farla suonare più forte: al maggior numero di strumenti bisogna avere qualche cosa da far dire). Chi continua a vedere nell'Otello il drammone della gelosia, chi crede che la trama consista nell'assassinio di Desdemona, in altre parole, chi pretende di applicare ancora a quest'opera gli schemi del Trovatore e dell'Emani, fatalmente ne deduce un giudizio negativo, perché quegli schemi non le si addicono. L'Otello è opera di un altro musicista. Suo argomento fondamentale non è l'uxoricidio (di qui il posto un poco marginale in cui resta relegato il personaggio, in sé impeccabile, di Desdemona). Il dramma di Otello è quello che oggi si direbbe una crisi di identità. Otello viene plagiato, estraniato da se stesso, per l'inquinamento che produce nel suo essere la malefica persuasione di Jago. Di qui l'importanza determinante del ripiegamento di Otello sulla perduta immagine del se stesso di una volta, e la geniale intuizione di Verdi nel dare tanto rilievo a «Ora e per sempre addio, sante memorie», quasi fosse il cardine e l'ombelico musicale dell'opera. Tutto questo c'è in Shakespeare, il quale — com'è noto — conosceva Freud meglio di noi, e Botto non ha fatto che travasarlo e trasmetterlo a Verdi, il quale è come uscito da se stesso (il se stesso del Trovatore e del primo Mochetti) per elaborarlo musicalmente da pari a pari. ★ ★ Comprendere questa trasformazione comporta la rinuncia ad un romanzo d'appendice, con riflessi di psicologia da fumetto, per acquistare un capolavoro dell'arte moderna, situato nell'atmosfera della fin di secolo, tra art nouveau e pensiero negativo, e singolarmente profetico d'una tematica che avrà poi tanto sviluppo nel filone narrativo austro-danubiano del primo Novecento, da Musil a Kafka, da Schnitzler a Joseph Roth, da Svevo a Robert Walser. E' questa un'operazione culturale che riesce ostica ai patiti della cabaletta, inguarìbili nostalgici del «loro» Verdi quarantottesco e recalcitranti ad ammettere che l'ultimo Verdi, ponendo ormai tra virgolette l'impiego del canto tutto spiegato e il ricorso alle cadenze tonali che un tempo spendeva in tutta innocenza, s'inoltra in quella dimensione dell'arte contemporanea che è la parodia e si accosta ai più inquieti spiriti del nostro tempo per dare nell'Otello sanzione definitiva al pessimismo cosmico ch'era sempre stato la cifra determinante del suo pensiero. Non meno di Brahms e di Mahler l'ultimo Verdi apre la musica alla crisi della civiltà contemporanea, ossia al doloroso assestamento dell'uomo in seno a un universo senza miti, da accettare virilmente, senza nostalgie metafisiche per le rassicuranti certezze («Ora e per sempre addio, sante memorie»!) della totalità e dell'assoluto. Che è poi la sostanza e il motivo del così detto decadentismo. u idea dei Pezzi sacri, da radunare insieme, si formò con gli ultimi due, Te Deum e Stabat Mater, questo per coro a quattro parti e orchestra, quello per doppio coro a quattro «parti e orchestra. Qui pulsa l'impegno profondo del compositore. Non sono lavori minori che scivolino tra un'opera e l'altra. Vengono dopo il Falstaff e sono la principale occupazione artistica di Verdi tra il 1895 e il 1897. Il Maestro ha ottantadue-ottantaquattro anni. Ma non è finito. Non è nemmeno stanco. IJ canto fiorisce ancora dal suo vecchissimo cuore. Certo, non sono i canti scalmanati e ardenti della sua giovinezza. Sono canti di suprema saggezza senile. Sono i canti d'uno che ha visto e conosciuto tutto. Sono i canti di un Maestro. Nes¬ suno ha spiegato meglio di Wagner, il suo grande coetaneo, che cosa sia il canto di un Maestro. Dice Hans Sachs, quando cerca con pazienza d'insegnare l'arte al giovane e bollente cavaliere Walter von Stolzing: «Nel dolce tempo della giovinezza, quando il petto a noi si solleva alto ed ampio con impeti possenti alla beatitudine del primo amore, allora a molti potè riuscire di cantare una bella canzone: la primavera cantava per loro. Ma vennero poi l'estate, l'autunno e il tempo dell'inverno, e dolori ed angustie nella vita, ed anche qualche gioia coniugale, battesimi, affari, liti, contrasti: eppure ci sono alcuni che ancora vogliono riuscire a cantare un bel canto. Ecco: questi si chiamano Maestri!». I Quattro Pezzi sacri sono l'opera d'un Maestro. Sono i canti d'un favoloso longevo che è rimasto solo: attorno a lui sono scomparsi, ad uno ad uno, gli amici, le persone care, una moglie, due figli, tutta la gente del suo tempo. Anche la seconda moglie sta per lasciarlo. La sua casa è deserta. Egli avanza solo ormai, verso il secolo nuovo. Intorno a lui non c'è più uno di quelli con cui aveva iniziato il cammino. Eppure il suo passo è ancora alacre. Ancora fa strada. Ancora va avanti. Forse non lo sa, e si compiace, brontolando, di sottolineare la propria qualità di uomo d'altri tempi in un mondo cambiato, ma è lui che marcia in testa, è lui che nel secolo nuovo ci entra coi primi, a testa alta, aprendo la strada ai giovani. Forse Verdi, componendo uno dopo l'altro i Pezzi sacri, senza un disegno preciso, credeva davvero di trastullarsi con le note, tanto per ingannare la propria solitudine, ora che aveva preso congedo dal teatro, ragione della sua vita. Ma uomini come Verdi non si ttastai lano mai. I loro trastulli tracciano le vie della Storia. (...) Massimo Mila Otello, Desdemona e Jago in una olografìa tedesca deU'800 dedicata a Shakespeare

Luoghi citati: Cipro, Italia, Mahler