New York impara l'italiano di Furio Colombo

 New York impara l'italiano SOLO DA MESI NON E' PIÙ' UNA «LINGUA TAGLIATA» New York impara l'italiano Scoraggiato per generazioni come socialmente inutile, quasi bandito dalle aule scolastiche e dalle chiese, ora conosce un rilancio sorprendente - Come si è separato lo studio della lingua da quello della nostra cultura - Le iniziative di università e istituti privati - Tornano italiani anche molti cognomi NEW YORK — «Quale ruolo giocherà la conoscenza della lingua tedesca nel vostro futuro?». Questa pubblicità, fatta con migliaia di volantini nei giorni scorsi alla Columbia University di New York, è uno dei modi con cui si cerca di promuovere, in quel campus la conoscenza di una lingua straniera. Non è un mistero per nessuno che gli americani non studiano lingue. Diplomatici e uomini d'affari vivono per anni in Paesi lontani imparando quasi solo il nome dei cibi e continuando a pronunciare male i cognomi degli •indigeni*. Gli americani di argine italiana, sono quasi trenta milioni secondo alcuni calcoli (dunque la 'minoranza* più grande, se gli italiani stessi non rifiutassero questo termine). La nostra lingua non ha mai trovato protezione o comprensione, non è mai stata insegnata nelle scuole medie (rarissime le eccezioni) ed è stata vigorosamente scoraggiata per molte generazioni. Persino in chiesa gli italiani americani hanno sempre dovuto rassegnarsi a deformare la pronuncia delle preghiere sotto la guida vigo¬ rosamente etnocentrica dei preti irlandesi. Nel potente territorio culturale della Chiesa cattolica americana (cinquanta milioni) nessuna scuola parrocchiale insegna o ha insegnato mai l'italiano. La gerarchia è quasi completamente irlandese e il clero giovane e liberal si preoccupa oggi di capire o insegnare lo spagnolo. La questione italiana (lingua, eredità, cultura) è stata saltata. Ma che rapporto c'è fra lingua e cultura? E' la soppressione o l'abbandono della lingua che ha reso incerto e difficile da disegnare il profilo della parte etnica più numerosa d'America e, nell'insieme, tra quelle che hanno avuto più successo sociale? Giorni fa, in una inchiesta sul voto 'etnico- nelle prossime elezioni presidenziali, il New York Times aveva un titolo: •Il volto enigmatico degli italianU. L'articolo intendeva parlare delle difficoltà di sondaggio in un gruppo che si abbandona mal volentieri alla confidenza. Ma esprimeva acutamente anche «il disagio di capire gli italiani» che molti ossprvatori sociali sentono in America. E' un disagio che riflette la barriera di difese eretta da un gruppo che per un secolo e mezzo ha avuto «la lingua tagliata». Come si riflette il fenomeno quando dalla strada ci spostiamo alle università? Non ho mai trovato un manifestino con la scritta: «Venite a trovarci e imparerete le occasioni di carriera che la conoscenza della lingua italiana può offrirvi». Però in ogni università, quasi ogni giorno, si proietta un film di Fellini, Rossellini o De Sica. E vi sono eccellenti dipartimenti di storia e letteratura del Rinascimento, corsi sulla letteratura (raramente moderna e contemporanea, però) e naturalmente corsi di lingua, dalla grammatica alla buona scrittura. Qui però le cose sono andate in modo diverso rispetto agli altri dipartimenti (tedesco, francese, spagnolo) e bisognerà vedere perché. Il primo dato è che gli studi di italiano sono stati a lungo lontani dalpresente, con l'eccezione del cinema che però alcune università studiano nell'ambito di altri programmi ('Il cinema politico in Europa nel dopoguerra», oppure • Tecnica del montaggio in tre grandi autori*). Il secondo è che gli studi italiani per molti anni hanno avuto poca o nessuna relazione con l'immensa comunità italiana. Si trovavano (a volte ancora si trovano) più nomi italiani a Medicina, Legge, Economia, che nei dipartimenti di Letteratura. In altre parole, una volta imparata dai nonni e dai padri la dura lezione sociale (l'italiano non serve) i giovani arrivati all'università hanno mostrato la tendenza a star lontani dalla lingua. Conosco il caso di un noto medico e di uno storico di successo che praticano, entrambi in campo accademico, l'uno col nome tedesco l'altro dopo avere francesizzato il suo nome (e la sua lingua: parla un eccellente francese ma non sa l'italiano). Restano cautamente lontani dai centri di studi italiani. Il terzo dato è che i dipartimenti di italiano hanno tenuto duro nel pretendere la conoscenza della lingua come prerogativa assoluta per accostarsi alla cultura italiana con una passione insieme lodevole e discutibile. Hanno voluto confermare — contro le stesse condizioni storiche del Paese — l'importanza dell'italiano. Ma hanno chiuso ai mnon praticanti* della lingua l'accesso ai dipartimenti per anni. Eppure da I mesi i giornali di New York I portano ampia pubblicità di scuole private di italiano ^•parlate l'italiano come un ambasciatore», dice ambiguamente l'avviso) accanto alla pubblicità di simili scuole di tedesco o francese o spagnolo. Qualcosa è cambiato fuori dalle università. Per esempio nel mondo delle grandi banche commerciali, la conoscenza dell'italiano è apprezzata per la carriera di executive. E nelle università? Qui sono avvenuti cambiamenti graduali, in parte legati a rapporti diversi con l'Italia e la cultura italiana, in parte a una nuova presenza pubblica degli italo-americani. Psicologicamente e storicamente, un delicato punto di congiunzione fra questi due percorsi è forse stata la Scuola d'Italia a New York. La Scuola d'Italia è stata a lungo un'idea fissa e appassionata del console d'Italia De Bosis, e da qualche anno è diventata una cosa vera, col suo edifìcio, i suoi studenti, i suoi insegnanti, il suo diploma che abilita sia alle università americane che a quelle italiane. Sostenuta in parte dallo Stato italiano e in parte da fondi privati, la Scuola d'Italia ha rotto un antico ostacolo. I bambini possono studiare l'italiano insieme all'inglese, e sono educati secondo i due sistemi scolastici, in modo da mantenere aperte le loro opzioni verso il futuro. Chiunque avrebbe scommesso che la Scuola d'Italia sarebbe stata il punto di passaggio dei figli di italiani temporaneamente trasferiti a New York. Invece più della metà degli studenti sono piccoli italo-americani. C'era evidentemente un desiderio di ritrovare la lingua anche se era un desiderio represso e inespresso. La nascita della Scuola d'Italia a New York serve, oltre che a centinaia di bambini, anche a un utile chiarimento culturale. Ha spostate (come da decenni avevano fatto i francesi) la battaglia per la conoscenza della lingua alla stagione della scuola media, mostrando che il legame ferreo fra lingua e cultura, stabilito in passato da molte università poteva essere una gabbia che impediva la crescita e la multidiscipline.rìtà dei dipartimenti italiani. Nella nuova stagione che apre al contatto con la cultura italiana sono nati punti importanti come il Center for Italian Studies alla Columbia University (include la Casa Italiana già diretta in passato da Prezzoli e ha allargato i suoi confini agli studi e ai problemi internazionali con l'arrivo di Giovanni Sartori, già preside della facoltà di scienze politiche di Firenze e ora «Albert Schweitzer professor of humanities» alla Columbia University) e come il nuovo Centro per gli studi sull'Italia contemporanea nato alla New York University a opera del giovane e attivissimo Luigi Ballerini. In questo modo la città più italiana del mondo ha oggi un polo 'nord* della cultura italiana alla Columbia University, che pone l'accento sugli studi e i problemi sociali, internazionali, politici e di informazione, e un polo •sud* (con riferimento ai quartieri) nella New York University che predilige arte, architettura, scienze visive e letteratura contemporanea. Nello stesso periodo il gruppo italiano di Barnard College (un settore della Columbia S N University) ha sottoscritto un accordo di scambio (docenti, studiosi, ricercatori di tutte le discipline) con l'Università di Roma, un'iniziativa in cui conta molto—oltre lo slancio volontaristico di docenti come il prof. Lorch — anche la politica di cooperazione culturale cui l'ambasciatore Gardner, docente lui stesso alla Columbia University, ha dato una priorità nuova. E i settori 'Classici* dello studio italiano? Restano dove sono, cioè in posizioni altissime, quando vi sono personaggi come Dante Della Terza (Harvard University) o letterati del livello di Pasinetti e Chiappelli a Los Angeles. E più vicini al modello di un buon liceo d'altri tempi nella maggior parte dei colleges. Ma segni di vitalità si notano al Brooklyn College, alla Brown University, a Yale. E l'università di Pennsylvania ha inaugurato un centro di studi italiani. La grande soluzione sembra essere stata la separazione dello studio della lingua da quello della cultura italiana. Si insegna e si discute in inglese, in tutti i nuovi centri che sono nati o stanno nascendo. Ma intanto nella nuova Scuola d'Italia che funziona a New York, da un lato, e nei rinnovati dipartimenti d'italiano delle università, dall'altro, vi è un nuovo, evidente interesse (e anche una crescita statistica) nello studio della lingua. Lo sdoppiamento è stato un fatto importante. C'è chi ha bisogno di imparare l'italiano senza discutere di Petrarca. La Fondazione Agnelli, che sostiene in parte alcuni di questi programmi, è impegnata in una ricerca che sarà presto pubblicata, sullo studio dell'italiano in America. Quei dati saranno una guida utilissima. Ma intanto lo storico •francese* ha deciso di riscrivere in italiano il suo nome, e il medico-professore non nasconde più la sua origine (e il suo italiano, rimasto impeccabile) ai colleghi della sua università, dove ha fatto carriera sembrando tedesco. Furio Colombo