Lettera aperta al sindaco di Luigi Firpo

Lettera aperta al sindaco Cattivi Pensieri di Luigi Firpo Lettera aperta al sindaco Signor Sindaco, giorni fa ha avuto luogo nella nostra città una cerimonia molto modesta e raccolta, ma tuttavia significativa. Persone di vario ceto ed estrazione politica si sono riunite nel tempio israelitico per testimoniare agli ebrei torinesi raccolti in preghiera la solidarietà dei concittadini contro l'ondata di antisemitismo che sembra dilagare nel mondo e, in particolare, contro l'infame attentato perpetrato alla sinagoga di Parigi. Una riunione tutt'altro che oceanica, dimessa persino, ma molto seria e civile. Non ne parlerei qui, se non mi fossi convinto de visti, che un piccolo contributo potrebbe recarlo anche la municipalità, con un provvedimento poco oneroso come è quello di cambiare il nome d'una strada. Non mi risponda, La prego, che sono incoerente e mi contraddico. Ho detto più volte, e ne sono fermamente convinto, che questo continuo mutare i nomi delle strade sia una suprema sciocchezza. Le città storiche non sono fatte solo di chiese, palazzi e monumenti, ma anche di nomi. Nessun forsennato ha preteso a Venezia di intitolare diversamente la Frezzaria solo perché non vi si vendono più frecce, o a Roma la via dei Cestari solo perché nessuno vi intreccia più panieri. A Torino lo scempio è stato lungo, metodico e dissennato. Il fascismo aveva dato il nome di Mario Gioda a via dell'Ospedale, ma quando si cancellarono le tracce dell'odiato regime non si tornò al vecchio nome storico, legato alla superba mole del nosocomio ideato dal Castellamonte, ma si volle dedicare la via a Giovanni Giolitti, uomo che come pochi merita di essere ricordato nella toponomastica cittadina, ma non li, nel vecchio cuore della città violentato e snaturato, bensì altrove, in qualche bel viale novecentesco che gli fosse in qualche modo coetaneo. Pensi, signor Sindaco, come sarebbe bello che via Garibaldi tornasse a chiamarsi Doragrossa, via Des Ambrois (che tanto nessuno sa dov'è) contrada del Moro, via San Francesco da Paola, contrada del Camion d'Oro e cosi via; se, insomma, si dedicassero agli uomini nuovi le cento e cento nuove strade della metropoli dilagante e alle poche strade del- la città vecchia si restituissero i nomi giusti: quelli della storia. Ma nel caso della sinagoga torinese il discorso è tutto diverso. Per cominciare, si tratta di Borgo San Salvano, un quartiere delineato sulla metà dell'Ottocento al di là della prima tangenziale torinese, in «viale del Re», su vergini prati, fra la strada di Nizza e il Valentino. Se le ambizioni erano quelle di farne un quartiere di alto decoro, esse andarono presto deluse: ma la toponomastica prescelta fu quella degli uomini illustri piemontesi, anche di taluni che proprio celebri non erano, visto che si svaria dal grande Anselmo di Aosta a scienziati di modesto grido come Giuria o Berthollet, da pittori come Galliari a letterati come Pellico o Valperga di Caluso, da servitori della monarchia come Ormea e Sai uzzo alla «Madama Reale» Cristina, e via discorrendo. In quel quartiere, liberati finalmente grazie allo Statuto dalle interdizioni e dalle discriminazioni, vollero erigere i loro templi i fedeli di due comunità religiose a lungo perseguitate ed oppresse: gli ebrei e i valdesi. Non è a caso che i due edifici sorgano ad un solo isolato di distanza, sicché l'abside dell'uno, di nuda severità calvinista, adocchia di traverso la facciata dell'altro, con i suoi archi arabizzanti e le cupolette panciute da moschea. Non è un caso che il tempio israelitico sia stato iniziato nel 1850, quello valdese nel 'SI, nel cuore di quel decennio eroico di libertà civili e di patriottico fervore in cui venne preparata l'unità d'Italia. Ebbene, signor Sindaco, la strada sulla quale quei due edifici guardano è intitolata a san Pio V, e ciò costituisce qualcosa che sta fra la provocazione e la beffa, oppure, se è meramente casuale, uno di quei casi sciagurati cui occorre rimediare al più presto. Lungi da me, Iddio ne guardi, il proposito di sottrarre all'unico Papa piemontese della storia l'onore di una targa stradale. Semmai, il pontefice che portò quel nome, cioè il domenicano Michele Ghislieri del Bosco presso Alessandria, papa dal 1566 al '72, non apparve certo ai suoi contemporanei come piemontese, bensì come lombardo e suddito di Spagna. Ma qui non è questione di campanilismo, ma di sostanza. Perché quel frate ascetico, nato da povera gente, guardiano di pecore da fanciullo, novizio a 14 anni, sobrio, austero, infaticabile camminatore (non dismise mai le grosse scarpe contadine, le spesse calze di lana), tutto pelle e ossa, fu per l'intera sua vita e in modo essenziale un Grande Inquisitore. E dapprima a Pavia, poi a Como, esercitando quell'ufficio con severità implacabile, perseguitò eretici e bruciò libri; poi divenne commissario dell'Inquisizione romana con poteri di universale repressione; infine, come papa, mandò al rogo Pompeo de' Monti, Aonio Paleario, Pietro Carnesecchi, spopolò con processi crudeli Faenza e Lucca, gettò in carcere vescovi, impose agli ebrei conversioni semi-forzose, attizzò come vescovo di Mondovì le persecuzioni contro i valdesi. So bene che in privato fu di santa vita e che si consumò . per la Lega Santa che avrebbe trionfato a Lepanto. Gli assegni pure una strada, signor Sindaco, ma non 11. Quella via va intitolata non a un persecutore ma a una vittima, a uno dei grandi assertori piemontesi della libertà di coscienza come Celio Secondo Curione o Matteo Gribaldi Mofa, a uno dei grandi capi delle Valli valdesi, straziate e indomabili, a quell'Amaud che guidò il leggendario rimpatrio dei suoi, ai morti di Mauthausen e di Dachau, a uno scienziato israelita come il matematico Fubini o il filologo Debenedetti. E perché no, se vogliamo uscir di provincia, a Pietro Valdo o ad Anna Frank?