Il perché della droga è in noi di Carlo Tullio Altan

Il perché della droga è in noi NON PARLIAMO SOLTANTO DI SOCIETÀ' E DI SISTEMA Il perché della droga è in noi Perché la droga? Le risposte possono essere molte; ne vorrei dare una, certo limitata, che tenga conto soprattutto dei problemi intimi della persona, senza attribuire la colpa di tutto a indefiniti capri espiatori come la Società o il Sistema. La persona, quindi. Anche a una domanda sul modo di definirla le risposte possono essere praticamente infinite; io scelgo ora quella che più si adegua alle esigenze del discorso che vorrei fare. La persona non è una monade, un nucleo isolato di esperienza rinchiusa in sé. Per usare analogie molto approssimative, essa è rappresentatabile come il «centro», vivente e sensibile, di una serie molteplice di collegamenti con altri «centri» dello stesso tipo; un luogo specialissimo al quale arrivano una massa di comunicazioni che partono dagli altri, dalle altre persone: i genitori, i familiari, gli amici, i «superiori» e gli «inferiori», i colleghi e in genere la gente. Non solo. I messaggi possono avere una provenienza anonima, collettiva, essere captati dall'ambiente attraverso antenne sempre in tensione e orientate in rapporto ai problemi comuni, alle atmosfere, alle passioni diffuse, alle speranze, alle ansie, alle paure. Questi messaggi arrivano alla persona, e cioè al suo «centro» che non è passivo, ma reagisce elaborando tutto ciò con una capacita di combinazione che supera di gran lunga le possibilità di ogni tipo di elaboratore, soprattutto perché esso è capace non solo di applicare in questo lavoro un «programma» predisposto e imposto da altri «centri», ma anche di produrselo da sé. E in questo si manifesta ciò che genericamente sì chiama la libertà e la creatività, cioè l'originalità della persona umana. Questa può darsi le proprie leggi, in parte. Il risultato di questo lavoro si concreta in comportamenti, in azioni conformi alle esigenze di vita; prima fra tutte quella di sopravvivere, ma in certi casi anche quella di sacrificare la propria vita. Perché questa sorta Ci «respirazione», di immissione di messaggi e di emissione di opere, avvenga, e l'esperienza si traduca in azione, e questa a sua volta in gratificazione, il «centro» deve poter funzionare bene: ricevere messaggi, spesso contraddittori, decifrarli e utilizzarne il senso in rapporto alle esigenze della vita, che diventa cosi significativa. Un compito spesso difficile, quando la circolazione dei messaggi si fa caotica; un compito per il quale bisogna essere bene attrezzati in tempi calamitosi. Se il «centro» è all'altezza di questo suo compito, la persona che lo esprime appare equilibrata, attiva, efficiente e relativamente felice. Altrimenti, no. Non bisogna dimenticare che essa non preesiste a se stessa, per quanto se ne sappia, ma che essa viene costruita, a passo a passo, fin dalla nascita, partendo quasi dal nulla, a opera di una serie di agenti: la madre, la famiglia, gli amici, i maestri, le organizzazioni, le istituzioni, ecc. Se le mani che l'hanno plasmata sono state inesperte e pasticcione, solo un miracolo può far sì che una persona risulti equilibrata, attiva, efficiente, felice. Essa avrà invece gravi difetti. Sarà cioè incapace di interpretare bene i messaggi che i suoi innumeri collegamenti recano al «centro». Ne resterà disorientata, e la vita le apparirà difficile ed enigmatica. Spesso, per difendersi dal dubbio distruttivo, cercherà di ancorarsi a un «centro» esterno, da cui dipendere per quanto riguarda l'interpretazione dei messaggi mutevoli. Un'abdicazione pericolosa dalla propria autonomia, perché se anche il «centro» che si è scelto come riferimento entra in crisi, e tanti ne sono oggi gli esempi, allora tutto ci crolla attorno. Ma non è questo il solo caso nel quale una persona può entrare in crisi. Essa è una realtà «programmata» in un certo modo, per vivere in un certo luogo, i cui messaggi possa elaborare secondo i codici tradizionali, quelli del costume ancestrale e della consuetudine consolidata. Se essa si sposta in un altro luogo, come avviene a tutti coloro che lasciano il borgo natio per le città lontane, recando seco il vecchio programma casalingo, quando entra in contatto con le emittenti del nuovo ambiente, con gli altri nuovi «centri», essa rischia di non comprendere più nulla, perché il suo codice non le permette di decifrare i messaggi correttamente. Essa rischia di smarrirsi. Ogni messaggio le giunge come un'offesa, una minaccia che causa sofferenza, una ragione di angoscia. La comunicazione sociale cessa di essere una fonte di gratificazione, e da questo la tendenza a ridurne le dimensioni, l'intensità. Questo può verificarsi attraverso l'isolamento in un gruppuscolo, come accade di frequente fra i giovani oggi. Là dentro si viene iniziati ai segreti di un nuovo codice, che viene accettato con entusiasmo perché sembra la soluzione di ogni problema, fino a quando si resta chiusi nel gruppo. Tutto quello che giunge dall'esterno viene negato e schernito. Ma i gruppetti d'età si formano e si disfano rapidamente, con le mode che li hanno ispirati, e allora chi rimane nuovamente solo, si ritrova peggio di prima e s'illude di potersi rinchiudere ancora di più, nel suo più intimo «privato». Ma lì. senza la comunicazione c'è il vuoto, nel quale risuonano voci strane. Allora l'ansietà cresce oltre misura. La vita appare non solo povera, ma terribilmente pericolosa. Bisogna sospendere assolutamente ogni contatto con essa. Il «centro» umano è a questo punto vulnerabile all'estremo, e il rischio del ricorso a difese patologiche gravissimo. La «soluzione» può essere infatti ricercata nel sostituire all'ambiente che dà angoscia un mondo artificiale, prodotto nel delirio, nel quale fuggire dopo aver tagliato dietro di sé ogni ponte, ogni legame, per sempre. E' la follia, la soppressione psichica di sé. Ma vi è anche un altro tipo di annientamento' quello brusco del suicidio che taglia brutalmente ogni nesso con gli altri. O quello lento, della disintegrazione di sé con la droga. Questa sospende temporaneamente i contatti col mondo, interrompe le comunicazioni dolorose, con il «viaggio» verso una realtà di delirio intermittente. Ogni ritorno è però sempre più difficile, più faticoso, più insopportabile, e la dose sempre più necessaria, più frequente, più forte, fino all'ultima, la overdose Carlo Tullio Altan