Baghdad certa della vittoria «La guerra finirà domenica» di Mimmo Candito

Baghdad certa della vittoria «La guerra finirà domenica» Incontro con uno dei massimi dirigenti iracheni Baghdad certa della vittoria «La guerra finirà domenica» L'Iraq conferma di voler iniziare la tregua, ma annuncia che risponderà agli attacchi di Teheran - «Il nazionalismo arabo batterà l'islamismo di Khomeini» DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE BAGHDAD — Questo è un rapporto dall'interno del regime iracheno: un rapporto che dice che la guerra finirà domenica, ma che parla anche delle sue prospettive incerte, e del futuro politico e militare della regione del Golfo. Il rapporto nasce da quasi quattro ore di conversazione con uno dei massimi responsabili politici del Paese. Va premesso che nessuna delle dichiarazioni qui riportate può essere considerata una presa di posizione del partito baath o del presidente Saddam Hussein (anche se nasce all'interno del gruppo che prende le decisioni politiche), ma resta nell'ambito di un incontro amichevole. Il primo punto che emerge dalla conversazione è «il nuovo spirito arabo» all'interno del quale l'Iraq intende collocare l'operazione militare lanciata la settimana scorsa. Da troppi secoli — questo è il senso del discorso — la nazione araba si è abituata a subire passivamente, a lasciare ad altri la difesa dei propri diritti. Eravamo entrati in una spirale tanto amara e rinunciataria —dice il nostro interlocutore — che, nella guerra del '67, il delegato siriano all'Onu andava piangendo «abbiamo perso Kuneitra» mentre ancora il delegato israeliano affermava «non è vero, ancora non abbiamo conquistato Kuneitra». L'Iraq ha voluto dunque difendere in modo attivo quelli che ritiene «i propri diritti legittimi». Non c'è dubbio che si innesta in questa visione il progetto.sJi leadership regionale preparato da Saddam Hussein nella consapevolezza di due realtà di fatto: 1) il vuoto di potere creatosi nel Golfo con la fine del regime dello Scià ; 2) la forza emergente dell'Iraq che — dice il nostro interlocutore —non è solo la ricchezza del petrolio, ma anche un Paese organicamente legato al suo regime, un partito molto unito, un esercito forte. In questo quadro c'è probabilmente un eccesso di ottimismo, ma l'interlocutore se ne serve soprattutto per contrapporlo alla realtà iraniana: quella di un Paese e di una società disgregati, senza una direzione politica chiara, senza certezza di potere, con un esercito che ha un grande orgoglio professionale ma deve anche subire il riflesso di ordini politici spesso contraddittori e negativi. Da queste considerazioni si arriva al secondo punto: i riflessi della guerra nel campo nemico. Pare di capire che l'Iraq spera nelle forze armate iraniane come nuovo interlocutore politico. La crisi che seguirà questa guerra (l'interlocutore dice, anzi, la sconfitta di Teheran) sarà una crisi economica molto pesante, che finirà per soffocare la già dissestata produzione iraniana e farà intervenire la sola struttura — i militari — che conserva un minimo di compattezza, di organicità, di credibilità. Il terzo punto del rapporto è: come si arriverà a questa crisi. Per il nostro interlocutore non ci sono dubbi: mentre l'Iraq ha potute preparare per mesi una strategia di 'difesa attiva delle proprie ragioni», ammucchiando riserve energetiche e alimentari capaci di fronteggiare un blackout totale anche molto lungo, l'Iran sarebbe invece stato colto di sorpresa dall'attacco, e perciò è impreparato a sopportarne a lungo le conseguenze. Anche se Corea, Giappone e Germania, e forse anche Turchia — dice l'interlocutore iracheno — stanno fornendo pezzi di ricambio alle forze armate iraniane, ciò non basta a vincere una guerra. La crisi sarà inevitabile, lo stato maggiore militare sarà chiamato dalle circostanze ad assumere la gestione del Paese. Quarto punto: quanto durerà la guerra. Domenica l'Iraq avrà raggiunto i suoi obiettivi. Che, secondo il nostro interlocutore, sono: dominio della regione centro meridionale lungo la strada che da Ahwaz porta a Dezful; un controllo che — verso Nord — arriva alle montagne del Kabirkuh e — verso Sud —al Khuzestan e ad Abadan. Si stabilirà cosi di fatto una nuova linea di frontiera, dalla quale l'Iraq si ritirerà soltanto quando Teheran avrà riconosciuto: 1) i diritti di Baghdad sullo Shatt el-Arab e sulle 320 miglia di territorio conteso; 2) la sovranità araba sulle tre isolette del Golfo. Questo discorso significa: noi contiamo di cessare il fuoco a partire da domenica, ma risponderemo a ogni attacco iraniano con un altro attacco, uguale per potenza di fuoco e forza distruttiva. L'Iran non può sopportare a lungo una simile situazione di guerra strisciante, mentre l'Iraq ha riserve migliori e maggiore forza contrattuale. Facciamo notare al nostro interlocutore che la situazione militare non sembra seguire il disegno tattico e strategico che lui va tracciando. La risposta è questa: la prima settimana di guerra è stata molto difficile perché abbiamo dovuto affrontare gravi problemi logistici (canali e acquitrini a Sud, montagne a Nord), ma poi il nostro esercito ha sfondato. Ora si trova in territorio iraniano per pili di una cinquantina di chilometri. Quello che stiamo incontrando lungo la strada è il pili munito avamposto della regione, con una decina di aeroporti militari e centinaia di depositi di armi di ogni tipo. L'Iran dello Scià vi aveva preparato un enorme fronte d'attacco verso il Golfo. Dezful, per esempio, è la più formidabile base militare del Medio Oriente, con piste e aeroporti sotterranei e decine di fortini costruiti sotto terra. Quando l'avremo conquistata, non soltanto domineremo il fronte verso Teheran, ma avremo sotto controllo anche le maggiori risorse petrolifere iraniane: Khomeini non avrà più una goccia di greggio e il governo di Teheran dovrà trattare. TI nostro interlocutore non sembra avere molte incertezze. Tuttavia qualche riserva c'è. Prendiamo, per esempio, la decisione di Baghdad di sospendere la produzione e l'esportazione del petrolio iracheno. Non è una misura grave per noi, che abbiamo riserve a non finire, dice, ma certo è una misura seria per l'Occidente, che non può fare a meno di questi tre milioni e mezzo di barili al giorno. Par di capire che l'Iraq vuole conservare una forma di pressione sul mondo industrializzato. Ultimo punto: le prospettive politiche di questa regione, a partire da lunedi prossimo. Per il nostro interlocutore l'o¬ biettivo resta l'esclusione delle grandi potenze da questa area del Golfo. Il progetto dell'Iraq si basa ancora sulla scelta politica del non allineamento, ma recuperando al proprio interno la forza aggregante del nazionalismo arabo. Dietro questa guerra e il negoziato che se ne vuole far nascere, appare la convinzione che il nazionalismo arabo possegga una forza politica superiore all'islamismo di Khomeini, e per questo risulterà alla fine vincente. Motivi ideali e motivi politici si intrecciano con qualche ambiguità ; la debolezza maggiore di questo progetto sembra essere la confusione tra nazionalismo arabo e nazionalismo iracheno. L'ambizione di Saddam Hussein di riuscire a tenere lontane dal Golfo le grandi potenze sta in realtà ottenendo il risultato contrario: i quattro «radar volanti» che gli Usa hanno già consegnato all'Arabia Saudita sono un segnale molto evidente. Mimmo Candito

Persone citate: Khomeini, Saddam Hussein